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Il suicidio di Monicelli diventa caso politico

Il regista Mario Monicelli

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Ero un ragazzino, amavo la poesia (per mia fortuna la amo ancora) e studiando Leopardi rimasi colpito da uno dei suoi Canti, il Bruto Minore. Il componimento racconta del suicidio di Bruto dopo la sconfitta nella battaglia di Filippi. Delusione. Umiliazione. Sparizione. Leopardi qui giunge - pur dipingendo il suicidio «la cosa più mostruosa in natura» - a considerare quel che in cronaca chiamiamo il «gesto estremo» come la suprema rivolta dell'uomo contro la natura, dunque atto razionale e degno di essere compiuto. Ero un ragazzino. Quelle parole del poeta amato furono per me fonte di mille pensieri di adolescente che scopriva la durezza e la bellezza della vita. Qualche anno dopo mi avventurai nella maestosità filosofico-letteraria di Albert Camus, mi inerpicai per le sue investigazioni sulle situazioni dell'anima, fino alle conclusioni del Mito di Sisifo: «Vi è solamente un problema filosofico veramente serio: quello del suicidio. Giudicare se la vita valga o non valga la pena di essere vissuta, è rispondere al quesito fondamentale della filosofia». Leopardi. Camus. Tanti anni fa. Flashback. Poi torni al presente, vieni catapultato nel 2010 e ti ritrovi a leggere sui lanci d'agenzia sgangherate discussioni filosofiche sul suicidio del regista Mario Monicelli. E dunque ti tocca prendere nota sul taccuino degli appunti dell'esternazione del Presidente Giorgio Napolitano, del necrologio di Walter Veltroni e via così in un surreale crescendo di dichiarazioni che assumo. Sembrano risuonare di un rintocco di morte e non di vita. Perché l'essenza del dibattito post-monicelliano diventa una Teoria della Fine per mano dell'uomo, per sua libera scelta, un'eutanasia coltivata come rivolta morale e politica. E allora tu, che sei un cronista navigato e credi avere il cuore duro e il cinismo necessari per guardare oltre, andare avanti e infischiartene, in realtà scopri che hai ancora la forza di indignarti nel vedere una fine tragica, un fatto di cronaca, l'opera omnia di un grande regista, diventare l'oggetto inanimato di una speculazione politica. Povero Mario Monicelli. Ha trascorso la vita a sbeffeggiare il potere in tutte le sue forme, a irradiarlo di ridicolo e tragico e ora si ritrova l'ultimo ciak della sua vita recensito dal potere e piegato alla polemica politica con mezzi che non hanno niente di artistico e sublime. La discussione in Parlamento, l'orazione turibolante è ancor più avvilente quando si legge chiaramente tra le righe dei cantori funebri l'interpretazione della fine di Monicelli come opposizione politica e morale contro il Paese trasfigurato nel berlusconismo, la determinazione lucidissima e inappellabile di un uomo in rivolta contro il Regime dei Regimi. Era davvero stupefacente sentire questo coro di vocine in falsetto diventare un gran baccano. La sinistra che lancia macigni sulla destra. La destra che catapulta massi sulla sinistra. L'opposizione che comincia una guerra agitando il Sacrificio e dimenticando una vita trascorsa non a spegnere ma ad accendere l'anima, a creare. Giuliano Ferrara ha liquidato da par suo, in poche righe scintillanti, questa commedia disumana: «Dovessi restare solo, molto vecchio, affaticato da un cancro e dal tedio di vivere ancora; e se mai accadesse che, ricoverato nel reparto solventi di un ospedale romano, io mi buttassi dal quinto piano e perdessi la vita nella nera malinconia di una giornata di pioggia battente; potrebbe succedere che qualcuno scriva, come per Monicelli, che è stato "lo sberleffo di un laico". Mandatelo affanculo». Non ci sarebbe nient'altro da aggiungere, se non che il Parlamento ha perso un'altra occasione buona non per tacere, ma per usare la lingua della pietà, della verità e della nobiltà. Ma in realtà bisogna continuare a scrivere e raccontare questa storia perché è lo specchio fedele, non deformato, non sceneggiato, non ricucito dal montaggio, del film neorealista dell'Italia contemporanea. Un Paese senza lucidità, schiumante di rabbia, incapace di fermarsi a riflettere perfino di fronte alla morte. Voi non ci crederete. Ma da ieri s'è riaperto il dibattito sull'eutanasia e la legge sul fine vita. In tv vedrete accapigliarsi gli opinion maker sugli ultimi cinque minuti di Monicelli e tutto, tutto il resto del prezioso lungometraggio della sua vita sarà un episodio breve, interrotto qua e là dagli spot pubblicitari e dallo zapping frenetico tra digitale terrestre, satellite, una partita di calcio e un reality show. Vedrete, cari lettori de Il Tempo, la destra dire che «la vita non ci appartiene» e la sinistra sfoderare la spada del «bisogna staccare la spina». Ah, quale poetica rappresentazione del nostro Essere, quale meravigliosa interpretazione del nostro passaggio sulla terra. Penso che questo sia lo sfregio più grande per un uomo come Monicelli. Tutto il resto della sua vita compresso, miniaturizzato, espulso in un boato da stadio per il suo volo e atterraggio sulla pietra dura. Niente poesia. Arida prosa. Non è quello il suo capolavoro, non è quello il suo magistero, non è quella la cifra della sua storia. Restano i film, le parole, il racconto dell'italiano capace di grandi e piccole cose, il romanzo di un popolo sempre schiacciato tra miseria e nobiltà. Il Palazzo sulla vita di Monicelli ha fatto scorrere i titoli di coda e proietttato uno Spot di Pubblicità Progresso. Clap clap clap. Risparmiateci il bis.

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