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Il premier stratega all'estero

Silvio Berlusconi (S) e Barack Obama (D)

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Il Cavaliere miete successi in politica estera, ma l'Italia non lo sa. La colpa? Di molti fattori, a cominciare da quello che ieri Il Tempo ha definito l'effetto-fotoromanzo che dalle cose private si è trasferito a quelle pubbliche: vuoi mettere l'appeal dei tormenti di Mara Carfagna o le reprimende di Luca di Montezemolo, rispetto agli accordi tra Nato e Russia, o alle modalità del salvataggio dell'Irlanda? Eppure al summit di Lisbona di venerdì e sabato scorso sono passate due proposte storiche, due cavalli di battaglia di sempre di Silvio Berlusconi: la partnership tra Alleanza atlantica e Russia, ed il rapporto più stretto con la Turchia. Entrambe, Mosca ed Ankara, verranno coinvolte nel futuro scudo antimissile europeo: un progetto che non ha un significato solo militare e difensivo, ma anche economico, essendo in ballo 20 miliardi di dollari nei prossimi dieci anni. Quanto all'Irlanda, stavolta non ci sono state né Merkel né Bce ad opporsi: il salvataggio di Dublino sarà un'operazione congiunta tra Europa, Fondo monetario internazionale, G7 e paesi fuori dall'eurozona come Gran Bretagna e Svezia. Un'operazione da 90 miliardi di euro, molto pragmatica, con un certo imprinting angloamericano, esattamente come Giulio Tremonti e lo stesso Berlusconi avevano auspicato ad aprile per la Grecia. Quando il premier italiano e Nicolas Sarkozy intervennero su Barack Obama per convincere frau Merkel a sbloccare il piano di aiuti per Atene. Di fatto, tra summit di Lisbona e vertice di Bruxelles molto è cambiato, almeno nelle intenzioni, nella geo-strategia mondiale. Termine ostico per la politica italiana, ma che godrebbe di maggiore appeal se comprendessimo che da quegli equilibri mondiali dipendono i nostri portafogli e la nostra sicurezza – sia rispetto al terrorismo sia ai flussi migratori, clandestini in testa – più di quanto non vi incidano un videomessaggio di Montezemolo, un monologo di Roberto Saviano, un comizio di Gianfranco Fini, le amarezze della Carfagna e, sfidiamo il politicamente corretto, il crollo a Pompei di un edificio minore, chiuso da vent'anni, di cui quasi tutti ignoravamo l'esistenza. Ma tant'è, da noi di questo si discute per mesi e settimane. Prima, durante e dopo.   Torniamo alla scena internazionale. L'Italia è stata pubblicamente ringraziata dal presidente americano per la sua "leadership che costituisce la differenza sul terreno" e per l'invio di altri 200 militari, o meglio "istruttori", in Afghanistan. E questo ha fatto passerella. Già non sarebbe poco: leadership è un termine con il quale abbiamo poca dimestichezza, ma che negli Usa vale molto, ha il significato preciso di governare una situazione e soprattutto di mantenere gli impegni. Se poi Obama parla esplicitamente di differenza sul terreno, va detto che anche la parola istruttori è abituale nel gergo di Washington, anzi di Langley (Cia): identifica gli agenti specializzati, in grado di muoversi oltre le linee, di tessere accordi non alla luce del sole con controparti delle meno raccomandabili. Abituiamoci: sarà questa la transizione afghana, quando il potere passerà a talebani e mujahidin che noi definiremo ufficialmente moderati ma che di fatto stabiliranno tra di loro e con l'Occidente una tregua molto armata con grandi regolamenti di conti e di denaro. L'essenziale è che non dirottino aerei sulle nostre città e non organizzino attentati nei nostri metrò. In ogni caso, la natura della nostra missione cambia: a fianco dei pacificatori ci saranno i nostri agenti segreti, un po' diversi dai carabineri alla Vittorio De Sica. L'antefatto perché l'Italia potesse svolgere, nelle proporzioni che ci competono, questo ruolo, è nell'essersi guadagnata la fiducia ("leadership") delle maggiori parti in causa, tanto sullo scacchiere militare quanto su quello economico, che in quella zona significa principalmente energia. E cioè Stati Uniti e Russia, con una importanza crescente anche della Turchia viste le sue buone relazioni con l'Iran. Dove noi, tra Russia, Turchia e Iran, abbiamo l'Eni. Lo abbiamo già ricordato: Berlusconi fu il primo, in era Bush, a sostenere la necessità di associare Mosca all'Alleanza atlantica. Il percorso iniziato nel 2002 con Vladimir Putin a Pratica di Mare, proseguito nel 2009 con Obama e Medvedev a Londra, ha trovato la sua legittimazione nell'istante preciso in cui il presidente Usa ha sostenuto la necessità che la Russia diventi partner della Nato. Anders Fogh Rasmussen, segretario generale dell'Alleanza atlantica, ha parlato stavolta di "giorno storico". Naturalmente sono ora i dirigenti del Cremlino a recitare il ruolo di corteggiati speciali: ma quando era praticamente il solo Cavaliere a ricercare relazioni particolari con Putin e Medvedev quante ironie si sono sprecate sul suo conto? E quante anche sull'amicizia personale con il premier turco Tayyip Erdogan, pure lui indispensabile non solo al rilancio della Nato e dei progetti americani, ma all'evoluzione stessa dello scenario strategico? Infine l'Irlanda. Aver messo sotto controllo la partita proprio alle vigilia del "downgrade multitacca" di Dublino annunciato ieri da Moody's significa limare di qualche altro punto (poco sopra 150, rispetto ai 180 cui erano giunti) la differenza di rendimento tra i nostri titoli pubblici ed i Bund tedeschi, e soprattutto portare Btp e Bot fuori dall'area rischio, con la possibilità – sottolineata dagli analisti – di rinviare al 2011, cioè a momenti più tranquilli, circa 50 miliardi di euro di emissioni residue. Una riserva non da poco. Aver contribuito a portare a termine questa operazione senza liti né minacce della Germania va anche a merito di Tremonti, e del governo nel suo complesso. Tre giorni da incorniciare lontano dall'Italia. Peccato che qui tengano banco i i diktat di Italo Bocchino.  

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