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Vajassa, quella parola che non piaceva ai poeti

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Èanche possibile che il termine napoletano discenda direttamente all'arabo, cosa tutt'altro che rara. Tuttavia, il significato è donna volgare. Donna di bassissima estrazione sociale, non affidabile. Attenzione: non donna di strada, ma donna aggressiva, violenta. Cosa ben diversa è la donna cafona». E qual è la differenza? «In napoletano, l'espressione completa era cafune 'e fore, cafone di fuori, e stava a indicare coloro che provenivano da fuori città. E, a mio avviso, l'aggettivo doveva essere "cacofono di fuori", cioè un "non cittadino" con un brutto modo di parlare». Vajassa ha un significato più pesante di cafona, contiene in sé una dose maggiore di disprezzo. De Falco però precisa che «il termine non va inteso come malafemmina. Per capirci, la vajassa non è la prostituta, figura femminile che la lingua napoletana definisce con un'ampia gamma di parole. Ma lasciamo stare, perché si andrebbe fuori tema». Vajassa è la donna che si esprime più a urli che a parole, più a suoni gutturali che a concetti, ha atteggiamenti autoritari e risulta offensiva. «Il termine vajassa – fa notare de Falco - è praticamente inesistente nella canzone napoletana». E questo a significare che è sempre stata considerata una parola di troppo basso livello per essere ammessa nei testi delle canzoni partenopee, per larga parte derivanti dalla poesia. Come nel caso di Salvatore Di Giacomo, i cui componimenti poetici (tra i più famosi, Marechiaro, Era de Maggio e Oilì Oilà) vennero poi musicati da Francesco Paolo Tosti o da Mario Costa. E lo stesso vale anche per i testi di Libero Bovio, Ernesto Murolo ed E.A. Mario, i magnifici quattro della poesia-canzone vesuviana. Ma torniamo a vajassa. «Una parola - ricorda de Falco - che non è nemmeno presente nel teatro napoletano. Risulta utilizzata una sola volta anche da Eduardo Scarpetta (il papà di Eduardo e Peppino De Filippo, ndr), che pure era il principe delle commedie popolari». In effetti, vajassa compare in Miseria e Nobiltà, per la precisione nella scena ottava (sebbene, secondo una scuola di pensiero, nel testo originario il termine non c'era e venne inserito di prepotenza, perché ripetuto sul palcoscenico dagli attori). Bettina, moglie di Felice, irrompe sulla scena con un coltello in mano e minaccia il marito. Questi esclama: «Indietro, vajassa! O chiamo un servo e ve ne faccio cacciare». La commedia scarpettiana è famosa soprattutto per la sua trasposizione cinematografica del 1954, con la regia di Mario Mattioli e un cast d'eccezione che comprendeva Totò (Felice Sciosciammocca), Giulia Melidoni (Bettina), Dolores Palumbo (Luisella) e, ironia della sorte, una giovanissima Sofia Loren, che nella pellicola interpreta la figlia di Felice e nella vita è la zia di Alessandra Mussolini.

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