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Luca scende in campo ma non in pista

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Luca Cordero di Montezemolo

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Siete superstiziosi? Noi ufficialmente no, ma nell'incertezza meglio evitare. Accortezza che non hanno evidentemente avuto Luca Cordero di Montezemolo e la sua numerosa schiera di tifosi (fosse stato Berlusconi avremmo dovuto scrivere, per essere à la page, quantomeno «laudatores»; ma qui si impone uno stile più consono). Come è noto domenica la Ferrari si è divorata un mondiale di Formula 1 già vinto per l'insipienza di quello che ora viene declassato come «il muretto»: ingegneri che decidono come e quando fare i pit stop. Il responsabile è stato prontamente individuato e le foto distribuite a giornali e tg: si tratta del fin qui sconosciuto australiano Chris Dyer, l'uomo che avrebbe intimato a Fernando Alonso di fermarsi a cambiare le gomme. Qualcosa però ci dice che se le cose fossero andate diversamente, se magari quella sosta al giro 15 non avesse cacciato Alonso nella tenaglia tra Petrov e Webber, oggi mr. Dyer non verrebbe celebrato come l'artefice della vittoria: al suo posto, accanto al campione mancato, ci sarebbe in effetti lui, Luca il presidentissimo. Che sul fantasmagorico circuito di Abu Dhabi si era in effetti presentato tanto sicuro da portarsi dietro Yaki Elkann, l'erede dell'Avvocato che ne ha preso il posto alla Fiat, e soprattutto il temibile Sergio Marchionne, l'uomo che dalla presidenza del Lingotto lo ha rimosso e ora ha in mano i destini della Fiat e soprattutto della Ferrari, nonché il futuro dello stesso Luca alla guida del Cavallino. Ahi, la superstizione, dicevamo. Non solo Montezemolo si è fatto scortare da così impegnativa compagnia, ma ha già prenotato, per domenica prossima, un'intervista a «Che tempo che fa», il programma di Fabio Fazio su RaiTre. Da non confondersi con «Vieni via con me», del tandem Fazio-Roberto Saviano, che va invece in onda il lunedì sera, è indiscutibilmente un intrattenimento culturale e non a caso hanno invitato ieri Gianfranco Fini e Pierluigi Bersani. E siamo già al secondo indizio. Il terzo ci viene dalla tradizione delle ospitate di Fazio. Tre settimane fa ci andò proprio Marchionne, alla domenica, disse che dalle fabbriche italiane non guadagnava un euro, e su di lui si abbatté il diluvio. Ieri è toccato a Bersani dopo una settimana di polemiche Rai per valutare se quello suo e di Fini fosse roba attinente alla cultura (testualmente, «spiegare i valori della sinistra e della destra») o invece una passerella politica gentilmente concessa a due amiconi del Cavaliere. Nel frattempo un'altra certezza c'è: Bersani ha perso le primarie di Milano, il suo candidato Stefano Boeri è stato sonoramente battuto dall'avvocato ex rifondazionista Giuliano Pisapia. Il ceffone non è mondiale come quello di Abu Dhabi sulle guance di Montezuma, ma c'è stato. E gli indizi salgono a tre. Il quarto è chiaramente individuabile in un'intervista dell'ex sindaco di Venezia ed ex presidente del Veneto, Massimo Cacciari, pubblicata ieri con raro tempismo dal Corriere della Sera, il quotidiano che fornisce in diretta tutte le mosse propiziatorie alla futura carriera politica di Luca: «Fini, Casini e Rutelli non bastano – assicura Cacciari - serve Montezemolo. Gli imprenditori come lui devono scendere in campo». Quattro indizi fanno più di una prova.   La settimana mondiale, e trionfale, di Montezemolo rischia un epilogo vagamente fantozziano. Di sicuro Fazio, cuor di leone, non gli chiederà come un aspirante leader di un paese del G7 abbia gettato al vento un trionfo in mondovisione per via di un oscuro ingegnere australiano. Il conto, magari, glielo presenterà proprio Marchionne: la Ferrari è il biglietto da visita del gruppo Fiat su tutti i mercati ricchi, e specialmente negli Stati Uniti, il costante pensiero dell'uomo in pullover. C'è chi ha calcolato che la disfatta tra le sabbie degli emiri valga un buon 30 per cento del fatturato a stelle e strisce. Anche perché ha coinciso con il lancio di Ferrari Word, un «parco a tema» ideato cinque anni fa dallo stesso Montezemolo e da Mubadala, il fondo sovrano di Abu Dhabi: parco che, a quanto riferisce il quotidiano francese Le Monde, sarebbe però in ritardo (strano: la Rai ce ne aveva descritto meraviglie). In realtà il nocciolo della vicenda ed suoi sviluppi sembrano ben altri: nel 2005 Mubadala comprò il 5 per cento del capitale Ferrari, operazione benedetta da Montezemolo, di cui il parco – e magari la vittoria nel neonato circuito – dovevano costituire il sigillo. Marchionne al contrario non gradiva la presenza diretta degli arabi; lui delle aziende di casa vuole avere la piena disponibilità. E ieri Mubadala ha annunciato la vendita di quella quota. Ora il Cavallino, che torna al 90 per cento in mani Fiat (il restante è di Piero Ferrari, figlio del Drake), può essere quotato in borsa, secondo uno schema fin qui contrastato da Montezemolo e smentito da Marchionne. Ufficiosamente sarebbero stati versati a Mubadala 122 milioni di euro: cifra del tutto esigua, ma che avrebbe un senso se scontasse linee di credito concesse alla Fiat. Secondo gli analisti la Ferrari potrebbe valere tra 6 e 7 miliardi di euro, e se ne venisse collocato solo il 39 per cento, quota sufficiente a mantenere la maggioranza assoluta, Marchionne incasserebbe non meno di 2,5 miliardi, cioè 3 miliardi e mezzo di dollari. Con i quali abbattere i debiti, o più realisticamente, sommandoli ai 10 miliardi di dollari già stimati per forniture di tecnologie, rilevare gran parte del 55 per cento della Chrysler in mano ai sindacati Usa. E Montezemolo? Ieri ha già dovuto smentire di volersi dimettere: lo ha fatto per ribattere ad una provocazione del solito Roberto Calderoli. Ma forse il suo messaggio aveva altri destinatari, e Calderoli non è solo quell'intemperante leghista che spesso appare. Certo, in questo caso Luca avrebbe tutto il tempo di dedicarsi alla politica, oltre che all'alta velocità, al fondo Charme e alla miriade dei suoi altri interessi. Magari potrebbe davvero scendere in pista assieme al «fronte dei responsabili». Pardon: pista non è la parola giusta.  

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