L'interventismo del Quirinale
La crisi politica non è ancora crisi di governo - né è detto che lo diventi con certezza - e già il Presidente della Repubblica inizia le "consultazioni" convocando i Presidenti del Senato e della Camera. È un comportamento irrituale, che suscita non pochi motivi di perplessità. Per la verità, il Presidente della Repubblica ci ha abituati a una vera e propria politica di tipo più o meno sotterraneamente "interventista" del Quirinale. Una politica fatta di accenni velati ovvero di esplicite dichiarazioni critiche su provvedimenti legislativi in itinere attraverso discorsi pubblici o interviste o, persino, iniziative clamorose quali l'ormai famosa intervista al quotidiano del maggior partito di opposizione o la lettera inviata al presidente di una commissione parlamentare prima dell'esame di un provvedimento. Ma del resto, ormai da alcuni decenni l'ombra del Quirinale si sta estendendo sempre di più sulla politica italiana. Una volta, agli inizi della nostra storia repubblicana, il Capo dello Stato - da quello provvisorio, Enrico De Nicola, al primo effettivo, Luigi Einaudi, entrambi galantuomini espressione di un mondo, quello autenticamente liberale, ormai scomparso - aveva esercitato la propria funzione limitandosi a operare come "notaio" o come "garante" degli equilibri istituzionali e della divisione dei poteri. Poi, poco alla volta, con alti e bassi, il ruolo del Quirinale è diventato sempre più invasivo fino al punto di caratterizzarsi per un "interventismo" più o meno accentuato nelle scelte di politica interna e persino internazionale. Basterà ricordare la tentazione presidenzialista di Gronchi che cercò di imporre, attraverso il neo-atlantismo e il surclassamento del governo, una politica estera che - lo sottolineiamo senza alcun giudizio di merito - non era certamente in linea con quella ufficiale del nostro paese. E basterà ancora rammentare che un altro Presidente della Repubblica, il "nonno d'Italia" amato dagli italiani per la sua franchezza e la sua umanità - giunse al punto da volersi porre in prima persona come mediatore nella vertenza dei controllori di volo. E, ancora, lo stesso Pertini si inserì nella "lite fra comari" che coinvolse il ministro delle Finanze Rino Formica e il ministro del Tesoro Beniamino Andreatta censurando quest'ultimo che replicò al Capo dello Stato definendolo "arbitro col cartellino giallo". Si potrebbe proseguire a lungo con altri esempi. Ma sarebbe, dopo tutto, superfluo perché una sorta di "presidenzialismo strisciante" sembra essere diventata ormai caratteristica del nostro paese, soprattutto dopo le trasformazioni intervenute nel sistema politico italiano con la seconda repubblica. Ma, detto tutto questo, rimane il fatto che se dal "presidenzialismo strisciante" non si giunge a una ridefinizione in senso autenticamente presidenzialista dei poteri del Capo dello Stato, alcune iniziative finiscono per avere un carattere di irritualità tale da lasciare sconcertati. Nella fattispecie attuale, tutto è all'insegna della irritualità e del grottesco. Una crisi annunciata e proclamata dal Presidente della Camera. Le "consultazioni" avviate di fatto dal Presidente della Repubblica, prima ancora che la crisi politica diventi crisi governo. L'anomalia di incontri che vedono, da una parte, il Presidente della Repubblica e, dall'altra, il Presidente della Camera nella doppia veste di carica istituzionale e di leader di un partito di opposizione. È davvero uno spettacolo misero, che finisce per accrescere la sfiducia nelle istituzioni. Non si riesce a comprendere il motivo per il quale il Presidente della Repubblica abbia voluto convocare i Presidenti delle due Camere prima che questi abbiano fissato i rispettivi calendari per l'esame e il voto delle mozioni di fiducia e sfiducia del governo. Se egli, con questa iniziativa, avesse inteso in qualche modo intervenire sulla "calendarizzazione" della crisi, sarebbe andato oltre i suoi compiti. Se, ancora, avesse voluto discutere delle modalità attraverso le quali uscire da una crisi non ufficializzata e formalizzata avrebbe, parimenti, oltrepassato i confini delle sue attribuzioni. Quello che, invece, avrebbe potuto fare sarebbe stato di attivare una moral suasion su Fini per rimuovere l'anomalia della coincidenza nella sua persona del ruolo di titolare di una carica istituzionale di garanzia super partes e di capo di un partito. Certo, la posizione del Presidente della Repubblica è umanamente e politicamente difficile. Egli deve far di tutto per garantire la governabilità ma lo deve fare senza interferire nelle scelte e nelle discussioni (in qualche caso da osteria) delle forze politiche. Deve garantire il rispetto delle istituzioni. E le istituzioni non si salvaguardano gettandole nella mischia. Dovrà prendere atto degli sviluppi della crisi e valutare di conseguenza, tenendo presenti alcuni dati di fatto. Il primo dato di fatto è che ogni ipotesi di governo - quale che sia - diverso dall'attuale sarebbe percepita come un vero e proprio "tradimento" della volontà di oltre la metà degli italiani e sarebbe una scelta che si rifletterebbe negativamente sulla credibilità stessa della Presidenza della Repubblica. Sarebbe davvero difficile andare a spiegare agli italiani - i quali hanno votato, in maniera sostanzialmente plebiscitaria, non soltanto il centro-destra ma l'indicazione di Berlusconi come capo del governo - che una manovra di palazzo avallata dal Quirinale porti allo stravolgimento o al capovolgimento dell'indicazione proveniente dalle urne. Il secondo dato di fatto è che - nella eventualità in cui il Senato concedesse la fiducia al governo e la Camera la negasse - l'ipotesi dello scioglimento solo di quest'ultima non avrebbe nulla di scandaloso e andrebbe anzi incontro al buon senso e alla logica della ricerca e della garanzia della governabilità. Che le elezioni - totali o parziali - si avvicinino sembra ineluttabile in mancanza della disponibilità di Berlusconi a guidare un nuovo governo e del Pdl e della Lega a sostenerlo. Ogni altra ipotesi - governo di transizione, governo tecnico, governo di salute pubblica e chi più ne ha più ne metta - sarebbe percepita come un tradimento della volontà popolare. O, peggio ancora, come un modo attraverso il quale certi "professionisti della politica" disposti a cambiare casacca a ogni stormir di fronde si assicurano permanenza in Parlamento, privilegi e rendite di posizione. Con effetti disastrosi - è superfluo sottolinearlo - sul tessuto etico-politico del paese.