Lo spettro della crisi e l'angoscia di Napolitano
Giàrassegnatosi nel 2008 a sciogliere anticipatamente le Camere, dopo la crisi dell'ultimo governo di Romano Prodi, egli teme di dover tornare a farlo non una ma due volte ancora perché l'attuale legge elettorale, che non tocca certamente a lui di cambiare, potrebbe produrre un'altra legislatura ingovernabile, e di breve durata. Tre scioglimenti anticipati del Parlamento in sette anni di mandato presidenziale gli conferirebbero un ben triste primato. Degli otto scioglimenti prematuri che si sono susseguiti con una certa frequenza dal 1972 in poi, due sono toccati al presidente Giovanni Leone, nello stesso 1972 e nel 1976; due al presidente Sandro Pertini, nel 1979 e nel 1983; uno solo, nel 1987, al presidente Francesco Cossiga, che pure è simpaticamente passato alla storia anche per le sue abitudini di picconatore; due al presidente Oscar Luigi Scalfaro, nel 1994 e nel 1996; e uno sinora a Giorgio Napolitano. Che però ha davanti a sé due anni e mezzo ancora di mandato presidenziale e lo spettro di una crisi di governo fra le più difficili e, direi, anche imbarazzanti della storia repubblicana. Non se n'era mai vista una prima di adesso maturare da uno scontro diretto, durissimo, quasi all'arma bianca, fra un presidente del Consiglio e un presidente della Camera. A dispetto quindi dell'imparzialità, della neutralità, dell'equidistanza e di tutte le altre categorie della politica e dello spirito alle quali eravamo soliti associare il ruolo istituzionale della terza carica dello Stato. Ancora ieri Gianfranco Fini, in una cerimonia svoltasi proprio alla presenza del capo dello Stato, di cui voglio immaginare il disagio, ha raccolto e rilanciato contro il presidente del Consiglio, pur senza nominarlo, l'accusa che i guardoni dell'opposizione - guardoni sotto tutti i punti di vista - gli rivolgono di avere "smarrito il senso della dignità". O addirittura di avere disatteso la disciplina e l'onore richiesti dall'articolo 54 della Costituzione a chi svolge funzioni pubbliche. Come antipasto di una crisi di governo, e forse neppure l'ultimo, servito nei piani nobili di Montecitorio, non c'è male. L'angoscia del presidente della Repubblica, o solo la preoccupazione, se l'angoscia dovesse apparirgli un termine eccessivo, è più che comprensibile in una situazione politica e istituzionale così tesa. Alla quale purtroppo contribuisce anche il presidente del Consiglio quando nella foga di un comizio telefonico, com'è avvenuto l'altro ieri, omette di ricordare che quella dello scioglimento anticipato delle Camere, o di una sola di esse, in caso di crisi è solo una sua legittima, e per me condivisibile, aspirazione. L'ultima parola, si sa, spetta solo al capo dello Stato. Sbaglierò, ma il groviglio dei problemi di natura istituzionale, politica e umana è tale che a sperare in un sia pur difficilissimo salvataggio parlamentare del governo, con una fiducia cioè confermata sia al Senato sia alla Camera dopo l'approvazione della legge di bilancio, non sono solo il presidente del Consiglio e i suoi ministri, ma forse anche il presidente della Repubblica. Per quanto il governo e la legislatura sarebbero condannati ad una sopravvivenza sbilenca, inadatta alle scadenze politiche, economiche, sociali e internazionali che incalzano.