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La lezione di Cameron

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seguedalla prima di MARLOWE (...) portasse le rette delle università pubbliche ad oltre 10 mila euro l'anno, di fatto sestuplicandole rispetto a quanto si paga oggi mediamente alla Sapienza di Roma, o quadruplicandole rispetto alla Statale di Milano? Avremmo gli atenei a ferro e fuoco, e non solo quelli; le città occupate dalle proteste per il diritto allo studio; accuse ovunque al governo Berlusconi di voler distruggere la cultura, magari per creare una società di fruitori di massa del Grande Fratello. Appelli di intellettuali, in testa Dario Fo e Margherita Hack. E probabilmente interverrebbe anche Giorgio Napolitano, che proprio l'altro ieri ha detto «rigore sì, ma non esageriamo con i tagli». Senza contare che gli atenei rivendicherebbero, tutti, la loro autonomia, compresa quella delle tasse. Ma se alzassimo il naso dalle nostre beghe domestiche e guardassimo a ciò che accade in Europa, in quei paesi che ogni due per tre prendiamo come modello di virtù, ci accorgeremmo di ciò che sta accadendo in Inghilterra. Dove il premier conservatore James Cameron, alleato con il liberaldemocratico Nick Clegg, ha varato un gigantesco piano di austerity da 83 miliardi di sterline, 95 miliardi di euro. E lo sta mettendo in atto. Tra le misure dei tories e dei libdem c'è l'aumento delle rette delle università pubbliche: da 3.290 sterline (3.816 euro) ad almeno 6 mila. Per ora, perché a seconda delle esigenze di bilancio il governo si è riservato di chiederne la triplicazione fino a 9 mila sterline, oltre 11 mila euro. Ovviamente anche a Londra e in altre città inglesi gli studenti sono scesi in piazza: ma non abbiamo letto, per esempio su Repubblica, appelli a preservare la libera cultura nella patria di William Shakespeare e Isaac Newton. Appelli, diciamo, pari a quelli rimbalzati sul Pais o sull'Economist contro la mai fatta legge-bavaglio del Cav. Né si è sentita la voce dell'Unione europea o del parlamento di Strasburgo, così solleciti ad intervenire sugli sbarchi di clandestini in Sicilia come per le discariche in Campania. Ma torniamo ai tagli di Cameron. Che non riguardano solo l'università, ma l'intero sistema inglese di welfare. Per inciso: quello che un tempo era il nostro ministero del Lavoro oggi viene generalmente definito appunto «del Welfare» in omaggio al sistema di tutele e sicurezze sociali nato nell'Inghilterra della rivoluzione industriale, e che ha preso la sua forma attuale con William Beveridge nel 1942, in pieno tempo di guerra. Insomma, un pilastro della società britannica. Che ora si ridimensiona sotto il peso di un deficit pubblico di 156 miliardi di sterline, l'11,5 per cento del Pil: più del doppio dell'Italia. Oltre all'aumento delle tasse universitarie, il cancelliere dello Scacchiere David Osborne ha annunciato il taglio di 490 mila dipendenti pubblici da qui a cinque anni, la fine delle case popolari garantite a vita ai bisognosi, il drastico ridimensionamento del sussidio di disoccupazione. In concreto, un disoccupato che rifiuta una prima offerta di lavoro perde i contributi pubblici per tre mesi, se la rifiuta una seconda volta li perde per sei mesi, alla terza volta l'assegno è sospeso per tre anni. Non solo. Chi non si impegna nella ricerca di un lavoro dovrà impegnarsi nel volontariato e in attività di pubblica utilità: per esempio, la manutenzione delle strade. I tagli si abbatteranno anche sul ministero della cultura (meno 41 per cento) e dell'Ambiente (meno 29). Oltre che della Difesa, che si vedrà costretta, tra l'altro, a varare una portaerei senza però gli aerei. Si tratta del più grosso piano di risparmi pubblici dal dopoguerra, che investirà cinque milioni di cittadini. Ma che dovrebbe mettere fine anche ad alcune storture: per esempio, i 4,5 milioni di inglesi che ogni anno rinunciano ad un lavoro trovando più conveniente affidarsi al sostegno pubblico (ed a un'attività in nero). Ed anche per questo, oltre che per l'emergenza finanziaria, i laburisti dall'opposizione non hanno alzato le barricate, dicendosi disposti a collaborare «a patto che si creino opportunità di lavoro». Evidentemente la sinistra inglese non ha dimenticato la sonora batosta subita da Margaret Thatcher con lo sciopero dei minatori del 1984. Quella italiana, invece, ha la memoria corta. Oppure finge di non vedere ciò che accade intorno a noi, nella vecchia Europa. Due settimane fa il presidente francese Nikolas Sarkozy ha imposto la sua riforma delle pensioni, dopo giorni di incendi di piazza e autostrade bloccate. Ora tocca agli inglesi. Per non parlare di quelli messi anche peggio: spagnoli, greci, irlandesi. Le famigerate forbici di Tremonti in fondo hanno tagliato 25 miliardi di euro, e non hanno toccato né gli stipendi né le pensioni di nessuno. La cura Brunetta ha preso di mira gli assenteisti, ma non ha cacciato neppure un impiegato. I tagli alla scuola non hanno spedito a casa nessun professore, maestro o bidello; né sono gravati sulle famiglie. Eppure da due anni abbiamo studenti e docenti in piazza contro il «massacro» della cultura. E sempre a proposito di cultura, quando si è cercato di ridurre i contributi dello Stato ad enti e fondazioni varie, abbiamo visto come è finita: il pio Bondi è stato messo di mezzo (come per Pompei, dove non c'entrava nulla), e ciò che era uscito dalla porta è rientrato dalla finestra. Eppure continuiamo a sentirci dire che bisogna guardare all'estero. E non solo da sinistra: Gianfranco Fini, nel comizio futurista di domenica scorsa, ha sostenuto che in nessun paese europeo si tagliano i fondi per la scuola, la ricerca, la cultura e l'ambiente. Che anzi, proprio i governi più rigoristi investono sui giovani e gli studenti. Dovrebbe studiare un po' d'inglese: in fondo è stato ministro degli Esteri.

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