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Se non si va alle elezioni siamo al limite del golpe

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Cheper molti di loro sarebbero mortali come una capsula di cianuro. Vi sono certo, in quel cartello, anche uomini e gruppi che dalle urne potrebbero ricavare qualche vantaggio: per esempio, Antonio Di Pietro e Nichi Vendola. Che infatti le reclamano, non vedendo l'ora di succhiare un bel po' di voti al Partito Democratico dei vari Bersani, D'Alema e Veltroni. Ma con Di Pietro e Vendola ingrassati elettoralmente la crisi del Pd si aggraverebbe ulteriormente, sia se dalle urne il cartello antiberlusconiano dovesse uscire sconfitto sia se dovesse per miracolo uscire vincente. Paradossalmente i guai del Pd potrebbero essere addirittura maggiori in caso di vittoria perché la distribuzione dei posti di potere e sottopotere non compenserebbe l'incapacità di governare alla quale sarebbe condannata una coalizione da baraccone come quella estesa da Gianfranco Fini all'attuale "governatore" della Puglia. È una coalizione, questa, che farebbe rimpiangere per disastri persino la fantomatica Unione di Romano Prodi, estesa da Clemente Mastella a Oliviero Diliberto e naufragata in meno di due anni nella scorsa legislatura. Questa volta però il fallimento sarebbe tutto e solo del Pd. Che per il ruolo che sta giocando nella preparazione della nuova armata Brancaleone contro il Cavaliere non potrebbe più cercare di scaricare poi la responsabilità di un fallimento su Di Pietro e Vendola, come l'allora segretario del Pd Veltroni cercò di fare con l'ultimo Prodi prendendosela con Mastella e Bertinotti. Non c'è tuttavia bisogno di aspettare il passaggio delle elezioni anticipate e di un improbabile successo degli avversari del presidente del Consiglio per vedere la mostruosità e il carattere fallimentare del nuovo cartello antiberlusconiano anche nel caso in cui gli dovesse riuscire il colpo di allestire, in caso di crisi, un governo utile solo a scongiurare il ricorso anticipato alle urne. Per avere i necessari numeri parlamentari e politici, dovrebbero contribuirvi tutti, proprio tutti coloro che vi aspirano o si dichiarano più o meno sinceramente disponibili. Ma Fini non potrebbe portarvi tutti interi i gruppi parlamentari che ha disinvoltamente costituito dopo la rottura con Berlusconi abusando - è ora di dirlo chiaramente - della visibilità e del ruolo istituzionale di presidente della Camera. Dubito che Pier Ferdinando Casini, già abbandonato di recente da un bel po' di parlamentari pesanti, possa portarvi per intero il suo partito, che non si sa più come chiamare dopo l'annunciato scioglimento dell'Udc e il proposito di creare un'altra casa nella quale ospitare anche Luca di Montezemolo, Francesco Rutelli ed altri aspiranti ad un confuso dopo-Berlusconi. Quanto poi a Di Pietro e a Vendola, essi vi si presterebbero a condizioni che spaccherebbero il Pd, ma soprattutto metterebbero il presidente della Repubblica in una situazione insostenibile, al limite - come vedremo - dell'eversione. In particolare, Di Pietro e Vendola vorrebbero limitare il compito di un governo tecnico, o comunque lo si voglia chiamare, alla sola preparazione e approvazione di una nuova legge elettorale, ritenendo quella in vigore troppo vantaggiosa per Berlusconi. Eppure essa servì nel 2006 a Prodi per battere il Cavaliere, sia pure per il rotto della cuffia. Ma di una nuova legge elettorale non si riesce ad immaginare neppure una generica fisionomia, tanti sono i contrasti che sulla materia dividono, anche al loro interno, i partiti che la reclamano. Ebbene, un governo che nascesse solo per fare una nuova e indefinita legge elettorale, e che si guardasse bene - come reclama Vendola - dall'affrontare anche altri temi, a cominciare da quelli economici, che pure sono i più urgenti, sarebbe semplicemente uno scandalo. Al quale un galantuomo come Giorgio Napolitano, con la sua lunga esperienza politica e istituzionale, non potrebbe decentemente prestarsi con una gestione disinvolta della crisi. Sulla quale giustamente il direttore de Il Tempo Mario Sechi si è rifiutato di scommettere nell'editoriale di ieri. Si può dissentire dal capo dello Stato su molte cose, per esempio sull'ultimo intervento a gamba tesa contro il cosiddetto lodo Alfano all'esame del Senato, ma non lo si può assolutamente immaginare al servizio di un golpe, quale sarebbe la nascita di un governo finalizzato solo o prevalentemente ad una riforma elettorale. Veltroni e ad altri che in questi giorni hanno invocato "un altro Ciampi" per allestire un governo di tal genere sono degli smemorati. Certamente Carlo Azeglio Ciampi fu scomodato nella primavera del 1993 dalla guida della Banca d'Italia per fare un governo con l'obiettivo prevalente, non unico tuttavia, di fare approvare dal Parlamento una nuova legge elettorale. La cui urgenza derivava però dal fatto che si era appena svolto un referendum abrogativo che aveva sconvolto le regole di elezione del Senato. Poiché non si poteva andare al voto anticipato con leggi diverse per il Senato e per la Camera senza produrre in quel momento una confusione politicamente e istituzionalmente irrimediabile, il governo Ciampi si accollò giustamente l'onere di porvi rimedio. Oggi le cose non stanno come allora. C'è un sistema elettorale non amputato da alcun referendum. Esso ha il solo o principale torto di non piacere, o di non risultare comodo agli avversari di Berlusconi. Che non possono cercare di uscirne con un colpo di mano, se non vogliamo parlare di un colpo di Stato. Di fronte al quale impallidirebbe anche l'oscena strumentalizzazione politica, e giudiziaria, che si sta facendo in questi giorni dell'increscioso incidente in cui è sicuramente incorso il presidente del Consiglio con quella maledetta telefonata del 27 maggio alla Questura di Milano, a favore della ragazza marocchina che vi era finita per ragioni poco commendevoli.

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