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La politica perseguita le imprese

Il presidente di Confindustria Emma Marcegallia e l' amministratore delegato di Fiat Sergio Marchionne

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Ormai lo abbiamo capito: le esternazioni di Sergio Marchionne, le sue aperture e i repentini ripensamenti, e soprattutto le sue critiche a quello che un po' pomposamente definiamo il sistema Italia (ma che sistema non è), insomma tutto questo tormentone ci accompagnerà per un bel po'. Finché il numero uno del Lingotto non sarà conseguente e dunque farà baracca e burattini e porterà altrove la produzione Fiat; oppure finché non deciderà di fidarsi e vedere se anche da noi è possibile fabbricare auto senza perderci, con gli stessi ritmi di Brasile, Polonia e Serbia o la stessa qualità della Germania; o infine – terza soluzione forse fantasiosa ma da non escludere – finché questo manager per noi marziano non sarà assunto a peso ancora più d'oro da una Toyota, una General Motors, una Mercedes. E gli eredi Agnelli dovranno o mollare o trovarsi un altro capo magari più consensuale con politici e sindacati, ma forse meno capace di resuscitare aziende che fino a poco tempo fa erano da tutti (dinasty torinese compresa) considerate morte e sepolte. Però finché Marchionne continuerà con le sue staffilate, per quanto dolorose, sarà bene rifletterci e soprattutto agire di conseguenza, anziché illudersi di contrastarle con commenti in puro stile politichese. Ieri Il Tempo ha sviscerato per esempio la reazione di Gianfranco Fini, il quale smentendo la ragione sociale del suo movimento, Futuro e Libertà, ha usato argomenti che poco guardano al futuro e al libero mercato, e molto al Transatlantico di Montecitorio. Poche ore prima la nuova promessa della sinistra, Nichi Vendola, aveva concluso il suo congresso indicando come modello economico e sociale la piattaforma della Fiom. Ed il segretario del Pd («partito di governo temporaneamente all'opposizione» secondo gli ultimi spot), Pierluigi Bersani, si è chiesto: «Quale modello abbiamo in testa, la Cina e la Serbia o la Germania e la Francia? Risponda il governo». Ma perché intanto non risponde lui? Magari guardando a come Sarkozy ha tenuto duro alle barricate e imposto la riforma delle pensioni, o a come la Merkel ha detassato gli utili d'impresa ed i capital gain (aliquota zero se la vendita è dopo un anno). A proposito di tedeschi, il segretario della Cgil, Guglielmo Epifani, ha testualmente detto: «Che cosa sarebbe successo in Germania se l'amministratore delegato di un grande gruppo avesse parlato in tv e non davanti al suo comitato di sorveglianza? Lo avrebbero cacciato». Non pago, Epifani pone altri interrogativi che riteniamo interessino solo a lui: «Non so perché Marchionne è andato in tv, e a chi parla. Alle sue controparti naturali o ai cittadini? E se parla ai cittadini la vertenza Fiat si risolve più facilmente o più difficilmente? E la ricomposizione di un tavolo con la Fiom è più facile o più difficile dopo questa esposizione mediatica? Avete mai visto una vertenza che si fa in tv senza che ai tavoli preposti succeda qualcosa?». Dopo il politichese stretto abbiamo dunque il sindacalese esoterico. E per quelli della Cgil e della Fiom, che in tv ci vanno una sera sì e l'altra pure, il problema pare sia che Marchionne «ricomponga i tavoli preposti», e soprattutto che non «parli ai cittadini». Proprio su quest'ultimo punto, però, Epifani si è pestato la coda, lasciandosi sfuggire quel che dà fastidio a molti: guai a mettere in piazza certe verità. La vicenda Marchionne è infatti l'ultimo di una serie di casi che hanno messo a dura prova ciò che resta del nostro sistema economico, industriale e finanziario. Prima della Fiat c'era stata la vicenda Finmeccanica. Il gruppo di Guarguaglini è uno dei pochi poli di eccellenza produttiva e tecnologica, nonché di export ad alto valore aggiunto, che ci siano rimasti. L'inchiesta è tuttora aperta, ma l'ipotesi è che per ottenere commesse militari – da altri governi, si badi bene - si servisse di mediatori e di qualche contabilità parallela. Nientemeno! E noi che pensavamo che in quel settore servissero i boy scout. D'altra parte ricorderete l'affare Lockheed con tanto di Antelope Cobbler: l'Italia è il paese che si dedicò ad abbattere l'Antelope sbagliata, mentre gli Usa si guardarono bene, e giustamente, dal distruggere la Lockheed. Poi è stata la volta di Unicredit. Mr. Arrogance non era simpatico, ma dopo la cacciata di Alessandro Profumo che cosa rischia di diventare la prima banca italiana, passata indenne e senza denari pubblici nella crisi finanziaria mondiale? Terreno di scorribande tra fondazioni venete e soci tedeschi, con una proliferazione di manager e aspiranti tali dove c'era un capo azienda, ed i famosi «scalatori libici», indicati come pietra (o pretesto) dello scandalo, pronti a battere in ritirata. Non paghi, si cerca di legare alla vicenda Unicredit una specie di «questione Geronzi», individuando nel presidente delle Generali una sorta di mente diabolica polivalente: da killer occulto di Profumo – lui che l'aveva difeso – a manovratore di improbabili e mai provate fusioni con Mediobanca e con la stessa Unicredit. Andiamo avanti: le Ferrovie. Luca di Montezemolo e Diego Della Valle, due bellissimi nomi, fondano l'Ntv per competere sull'alta velocità. Benedetta concorrenza, ovviamente. Sennonché LCdM e DDV inaugurano la competizione non sul servizio o sulle tariffe, ma tanto per cambiare sulle parole. In libertà. Lanciano all'azienda pubblica accuse pesantissime di «ostruzionismo e concorrenza sleale», chiedono un'authority di garanzia e la dismissione della rete ferroviaria, e già che ci sono anche il licenziamento del top manager rivale Mauro Moretti. Poi si scopre che i problemi, più che reti ed authority, riguardano le motrici francesi Alstom di Montezemolo e Della Valle, con una certa tendenza a staccarsi dai binari. E affiora che il vero socio forte di Ntv è Sncf, le ferrovie di stato pure quelle francesi. Quando abbiamo già visto questo film? Forse ai tempi della privatizzazione di Telecom e della semi-distruzione di Tim: oggi sulla telefonia italiana, un tempo settore strategico che dava la paga al mondo, passeggiano tedeschi, inglesi, egiziani e russi. Ecco: le reazioni a Marchionne, dalle ironie sulla sua «canadesità» agli inviti tout-court a licenziarlo, ci fanno venire in mente sinistre analogie di ieri e di oggi. Se c'è un problema non si fa l'autocritica per risolverlo, si apre la battuta di caccia. Ora è la Fiat, dove con tutta la buona volontà non si può fingere di ignorare che gli operai italiani producono 30 auto l'anno contro le 77 di quelli polacchi e le 100 dei brasiliani, e qui non c'è modello tedesco o cinese che tenga. E prima Finmeccanica. Appena ieri Unicredit: impallinato Profumo la mira si sposta sulle Generali. Quanto alle Ferrovie, statene certi, siamo solo al primo assaggio. Risultato: all'inizio degli anni '90 avevamo una decina di settori in cui eravamo il benchmark mondiale. Tra questi la telefonia, la chimica, la metallurgia, i cantieri navali, le infrastrutture. Oggi si sono più o meno dimezzati: manteniamo banche, assicurazioni, ferrovie, energia, aerospazio. Le grandi opere le facciamo sì, ma all'estero. Quanto alla fragile trincea dell'auto, niente di meglio che chiedere la cacciata di Marchionne. E poi magari dedicarci al resto.

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