La Cisl si schiera con Sergio A sinistra preparano le uova
Sergio Marchionne, che non ha nessuna intenzione di «buttarsi» in politica perché di mestiere fa «il metalmeccanico», conosce bene i politici italiani. Sapeva che non avrebbero apprezzato le sue parole. Troppo chiare. Troppo dirette. Vere e innovative. Nonostante questo l'amministratore delegato della Fiat ha deciso di lanciare il suo messaggio di rottura, come chi - indipendentemente dalle reazioni del giorno dopo - ha a cuore un futuro più lontano. Se i messaggi di condanna arrivano bipartisan, il sasso lanciato dall'italo-canadese non è andato a fondo senza lasciare traccia. Marchionne non lotterà da solo. Raffaele Bonanni sta con lui. La denuncia dell'ad di Fiat ha «irritato sia la maggioranza e sia l'opposizione: vuol dire che ha colto nel segno», afferma il segretario generale della Cisl, intervenendo a Porta a Porta. Il sindacalista ha le idee chiare: «Nel '94 la Fiat era morta. Appena Marchionne ha annunciato che voleva investire in Italia dovevamo suonare le campane: noi invece le abbiamo suonate a morto, spiega facendo riferimento all'accordo di Pomigliano voluto fortemente dalla Cisl e ostracizzato - a suon di uova - dalla Fiom. A leggere le parole dell'ad Fiat senza urlare allo scandalo è anche il vicepresidente di Confindustria Alberto Bombassei: «Marchionne non vuole lasciare l'Italia, anzi mi sembra che voglia continuare ad investire nel nostro Paese per tornare ai livelli di competitività di una volta», afferma ribadendo la volontà di impegnarsi, con i sindacati, per il recupero di competitività. Dalla Cgil però non arrivano segnali positivi. «Difficile fare utili se ci sono 20 mila lavoratori Fiat in cassa integrazione», attacca il segretario della Cgil Guglielmo Epifani. Anche Luigi Angeletti, leader della Uil, rimane critico sulla possibilità che la Fiat vada via dall'Italia: «Non ci credo, per noi sarebbe un danno, per l'azienda sarebbe una disfatta», spiega. Se i sindacati - insomma - mantengono ognuno la propria posizione, i politici non sono da meno. Mentre nelle file della maggioranza spicca la distanza tra la reazione critica di Gianfranco Fini e quella non polemica di Sandro Bondi («Le affermazioni di Marchionne chiamano in causa i problemi veri con i quali tutti dovremmo confrontarci») sul versante dell'opposizione a prevalere sono le critiche. Se il leader Idv Antonio Di Pietro giudica «offensive e indegne» le affermazioni dell'amministratore delegato del Lingotto, per Pierluigi Bersani occorre chiedersi «quale modello per fare le auto abbiamo in testa: la Cina e la Serbia o la Germania e la Francia? Ci vogliono regole universali, sul lavoro altrimenti diventiamo cinesi anche noi. Dobbiamo avere in testa l'Europa». Sergio Chiamparino, sindaco di Torino, va oltre, posizionandosi fuori dal coro: «I dati di cui parla Marchionne sono incontestabili. Che l'Italia sia l'ultimo posto in Europa quanto a competitività è vero. Il Pd non dovrebbe limitarsi a fare il tifo pro o contro Marchionne, ma dovrebbe indicare una strada». «Salva» Marchionne anche il leader Udc Pier Ferdinando Casini: «Non va demonizzato, anche se la Fiat ha ricevuto ingenti contributi dallo Stato, ha cento ragioni, come quando parla di perdita della competitività in Italia o degli stranieri che non investono nel nostro Paese. Dice cose sacrosante, non riesco a dargli torto», spiega. Le parole di un «metalmeccanico» italiano che ha a cuore il suo Paese - checché ne dica Fini - insomma, hanno messo tutti di fronte a un bivio. Da una parte c'è la realtà e c'è il futuro. Dall'altra parte c'è solo un cesto di uova da lanciare contro qualche saracinesca.