Camilla Conti Lunedì Gianfranco Fini si è esibito sul palco del Derby, storico tempio del cabaret milanese.
Unnuovo patto animato dalla «passione del presente», fondato sul «patriottismo repubblicano» per «ritrovare il filo di un grande racconto, di una narrazione più vera e più nobile della cultura e della storia repubblicana contro il degradante clichè di una italietta furba e inconcludente: ripensare il modello italiano e incarnare quel progetto, ridare corpo a una tradizione civile di cui si possa andare orgogliosi». Questo il sogno dei promotori (Monica Centanni, grecista all'Università IUAV di Venezia, Peppe Nanni, coordinatore Forum delle Idee, Fiorello Cortiana, fondatore Verdi italiani, e Carmelo Palma, direttore di Libertiamo) che non vogliono essere etichettati come finiani anche se di Gianfranco Fini apprezzano le iniziative «dirompenti» che annullano e rimettono in gioco le «vecchie e inaridite appartenenze». Il Manifesto è «no-partisan», sottolineano con orgoglio, e si rivolge «a tutto il ceto intellettuale italiano e agli interlocutori più sensibili» e invoca «un ritorno alla dimensione alta del fare politica». Di certo fra i primi cento firmatari spuntano nomi assai noti alle cronache finiane: da Luca Barbareschi a Flavia Perina, da Benedetto della Vedova a Fabio Granata presente ieri in teatro. Ma nell'elenco delle adesioni di estrazione più politica che intellettuale c'è anche qualche sorpresa “sinistra”. Come Ermete Realacci – presidente onorario di Legambiente ma soprattutto responsabile della green economy del Pd – o come Paola Concia, anche lei onorevole del Partito Democratico. Sempre del Pd è Andrea Sarubbi, mentre compare anche un ex dipietrista, Giuseppe Giulietti, passato nel gruppo misto. L'elenco prosegue con storici, islamisti, docenti universitari, filosofi, scrittori, latinisti, registi e attori di teatro, architetti, giuristi, linguisti, musicisti, politologi. Si aggiungono anche due dipendenti della Rai (il direttore Radio Bruno Socillo e il dirigente Angelo Mellone), economisti come Marco Vitale e Luca Meldolesi, il direttore Cinema della Biennale di Venezia Marco Mueller e il presidente della Quadriennale di Roma Gino Agnese. Non mancano nomi noti del mondo post marxista o liberal, come Giacomo Marramao, Giulio Giorello, Nadia Fusini, Maurizio Calvesi, Giuseppe Leonelli, Franco La Cecla. Fuori dalla lista ma apparso ieri alla presentazione del Manifesto “futurista” anche Moni Ovadia, attore e registra di teatro, musicista, scrittore ma soprattutto portavoce della cultura ebraica nonché icona della sinistra impegnata. Eccola l'intellighentia postberlusconiana che condanna il «populismo», l'«incompetenza stratificata» e le «derive plebiscitarie dell'anti-politica». Che fra i cavalli di battaglia ha scelto i temi etici come il testamento biologico, ma anche l'ecologia, l'integrazione, la cittadinanza attiva e i diritti civili. Che cita Mazzini appellandosi al suo «pensiero e azione» ma anche Ezra Pound con il suo «rinnovatevi a ogni sole». Perché non c'è politica «senza un pensiero che anticipa e accompagna l'azione trasformatrice». Toni, ispirazioni, accenti elevati che fanno tornare subito in mente un certo culturame di sinistra ma anche i vaffa eco-compatibili alla Beppe Grillo. Paroloni che stonano in bocca a certi eredi di un movimento popolare come era l'Msi.