segue dalla prima di GENNARO MALGIERI Che lo si chiami "governo tecnico", "governo di transizione" o "governo di liberazione" (da Berlusconi, naturalmente) fa ridere comunque.
Essistessi, si rendono conto che una maggioranza alternativa politica e non semplicemente numerica in Parlamento non c'è. Il fatto poi che i fautori di un tale obbrobrio litighino già prima che la possibilità, ancorché remota venga esperita, la dice lunga sullo stato confusionale di chi vorrebbe cacciare il Cavaliere da Palazzo Chigi ed insediarvi un signore privo di legittimità popolare. È bastato che il leader di Fli, Gianfranco Fini, proponesse l'aumento della tassazione sulle rendite finanziarie, emulando il Bertinotti d'un tempo, che Casini, suo potenziale alleato, gli rispondesse piccato. Altri, della stessa presumibile compagnia, come Montezemolo e Rutelli, non si sono ancora pronunciati, ma è difficile ritenere che condividano la sortita finiana. E siamo alla rottura di quello che dovrebbe essere il «nocciolo duro» del cosiddetto esecutivo di transizione. Ma della partita dovrebbe essere pure la sinistra «presentabile», dialogante, quella impersonata dal Pd il cui segretario Bersani vorrebbe un governicchio di pochi mesi, giusto il tempo perché gli sconfitti della primavera 2008 facessero una legge elettorale contro i vincitori e si tornasse alle urne. Diversamente la pensa D'Alema, neo-sodale di Fini, per il quale il governo post-berlusconiano dovrebbe comunque completare la legislatura. E per questo si prende del «matto» da Vendola il quale ritiene che ci sia invece bisogno della legittimazione popolare per fare riforme economiche di struttura che, dal suo punto di vista, dovrebbero rispondere a criteri pauperistici, un terreno sul quale potrebbe incontrarsi con Fini. Di Pietro è fuori gioco, brama dalla voglia di andare alle elezioni per salvaguardare il suo patrimonio di voti poiché sa bene che il tempo lavora contro l'Idv. Inutile dire che questa assortita compagnia dovrebbe anche tirar fuori dal cappello a cilindro il federatore di tutte le contraddizioni che sarebbero la vera anima del «governo di transizione». Impresa proibitiva perfino al mago Houdinì. Ecco perché non è una cosa seria. Anzi, è talmente ridicola che non bisognerebbe neppure occuparsene. Ma la cronaca politica questo passa ed i giornali hanno il dovere di riferire. Sia pure per dare conto dell'inanità della nomenclatura che si propone come alternativa agli assetti determinati dalla volontà dell'elettorato. Proviamo ad immaginare i sullodati esponenti della «guerra di liberazione» dal Cavaliere se questi dovesse essere sfiduciato alla Camera (al Senato è matematicamente impossibile e le ipotesi dei «congiurati» sono destinate a naufragare), intorno ad un tavolo per mettere insieme un programmicchio ed individuare un leaderino: dite che non sarebbe meglio del «Bagaglino» o di «Zelig»? Uno spettacolo che non vorremmo perderci per nulla al mondo. Dovremo però farne a meno perché nessuno lo metterà in scena. Per fortuna degli italiani, comunque la pensino. O il governo va avanti o si vota. Si mettano l'anima in pace i Frankenstein della politica.