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Non diteci ancora il nome dell'assassino

Sarah Scazzi, la ragazza di Avetrana, Taranto, scomparsa dal 26 agosto

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A questo punto, qualsiasi verità ci parrà deludente. Non diteci chi è stato, non ancora: vogliamo che restino accese le telecamere attorno alla «nostra» Sarah. Abbiamo avuto bisogno di affacciarci sull'orlo del pozzo, poi di sbirciare nel garage, finché non ci siamo intrufolati nella casa dei misteri, segretamente sperando che l'abisso sia sempre più profondo, che qualcuno dei protagonisti ceda a una nuova contraddizione e ci offra visuali inedite di questo inferno familiare, l'orrendo sabba in cui si affolla una ridda di mostri consanguinei che ogni giorno cambiano pelle, volto, ruolo.   Dietro i riflettori accesi ci sono più di cinquanta milioni di italiani nascosti nel buio spettrale di Avetrana, in attesa del prossimo colpo di scena, quasi maledicendo che i Misseri siano solo quattro, che non ci si trovi di fronte a uno di quei classici famiglioni rurali del meridione, con dieci fratelli, venti zii, un patriarca e una vestale della casa, tutti egualmente sospettabili, ciascuno depositario di un pezzo della maledizione che da ora incombe sulla loro stirpe. No, qui siamo alla terza nomination e il reality è praticamente già finito, con Cosima sfiancata in questura perché dica, perché spalanchi la botola dove custodisce i frammenti della sua consapevolezza. Anche gli oggetti si fanno fantasmatici, immateriali, ambigui, indizi di un giallo che corre troppo veloce verso l'ultima pagina: una corda e un mazzo di chiavi che non si trovano, così come il telefonino bruciato e l'auto piena di tracce che dovrebbero «parlare». Siamo intossicati, drogati, dipendenti dall'assassinio di Sarah. Inconsciamente speriamo che la soluzione non arrivi presto, e che non si riveli banale. Gli psicologi ci spiegano che abbiamo bisogno di allontanare - collettivamente - la sensazione che possa accadere nel nostro circolo degli affetti. Al tempo di Cogne c'era tutto un Paese convinto che fosse stata mamma Franzoni a uccidere Samuele, ma ci si accapigliava su suggestioni impossibili, che mantenevano intatta la sicurezza della «casa»: un rapace che aveva beccato la testa del piccolo, i vicini invidiosi, addirittura il cranio esploso per conto suo. Ora, di nuovo, i media ci inoculano la dose quotidiana di anestetico. Ma non è colpa dei giornalisti se queste storiacce tengono banco: provate a cambiare canale se ci riuscite, girate le pagine che si occupano del caso Scazzi senza leggerne almeno i titoli. Non siate ipocriti: delle altre notizie ci importa meno. Di questa dobbiamo sapere, ma non tutto, non adesso.   Ci fosse il commissario Ingravallo alle prese con il pasticciaccio gaddiano, divoreremmo il romanzo senza voler sciolto il garbuglio, anzi lo «gliommero», come diceva lui. Morbosità? Forse. Ma con l'ombra dell'assassino che si sposta sempre più in là, possiamo berci altre gocce di questo veleno necessario, gocce stillate dal video, precipitate sulla carta dei quotidiani. Abbiamo visto, abbiamo ascoltato, abbiamo pensato la nostra, senza capirci nulla. Ci siamo indignati per la diretta di «Chi l'ha visto» con la mamma di Sarah costretta dalla Sciarelli a sapere di fronte a tutti; abbiamo storto il naso di fronte alle molteplici interviste di Sabrina, la cugina che smaltiva il finto lutto al centro dei talk show; ci siamo interrogati sulla lettera aperta della Palombelli (via Tg5 e con conseguente scazzo con Mimun) per chiedere «scusa», in nome degli operatori dell'informazione, alla ragazza uccisa. Ci hanno fatto vedere come funziona il meccanismo della menzogna: lo sguardo vacuo, la spalluccia alzata, i capelli da tormentare con le dita, il pianto a comando. Poi sono comparsi i plastici, le ricostruzioni, i dettagli necrofili, il ralenty su quella morte infinita. Perché non sapere chi sia stato è come trattenere Sarah qui, nel mondo dei vivi, riuniti davanti al sacrario di una sorte incompiuta.

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