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I giudici attaccano la libertà di stampa

Vittorio Feltri

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Era inevitabile. A furia di evocare killeraggi e barbe finte, la situazione è precipitata. È la volta del «dossier Marcegaglia». Sono le sette del mattino di ieri quando una ventina carabinieri si presenta nelle sedi de Il Giornale con il mandato di perquisire sia i luoghi di lavoro che le persone fisiche e le loro abitazioni, alla ricerca di documenti infamanti. Il direttore Alessandro Sallusti e il suo vice Nicola Porro sono indagati nell'ambito di un'inchiesta aperta dalla procura di Napoli su alcune presunte minacce alla presidente di Confindustria. L'ipotesi formulata è di concorso in violenza privata (articolo 610 del codice penale). I decreti di perquisizione sono stati emessi dai pm Vincenzo Piscitelli e - chi lo avrebbe mai detto - Henry John Woodcock. A timbrarli - dopo averli definiti «urgenti e necessari» - è stato invece il procuratore capo Giovandomenico Lepore, già noto per essersi occupato di casi giudiziari che hanno suscitato non poco clamore (da Calciopoli all'inchiesta contro la camorra, a quella sui rifiuti denominata «rompiballe»). «Per caso ci siamo imbattuti in questa inchiesta, stavamo indagando su altro - ha spiegato - Nel controllare un numero di telefono (ma allora è vero che i telefoni de Il Giornale sono sotto controllo?, ndr) ci siamo resi conto che i colloqui tra i giornalisti de Il Giornale Alessandro Sallusti e Nicola Porro con il segretario del presidente di Confindustria Emma Marcegaglia erano tesi a far cambiare atteggiamento al presidente degli industriali che aveva rilasciato dichiarazioni dure contro il governo». Tutto nasce da un sms inviato il 16 settembre da Porro a Rinaldo Arpisella, responsabile dei rapporti con la stampa della presidente di Confindustria: «Ciao Rinaldo, domani super pezzo giudiziario sugli affari della family Marcegaglia». Lo stesso giorno, pochi minuti dopo - registrano gli inquirenti - i due parlano al telefono e il giornalista afferma: «Adesso ci divertiamo. Per venti giorni romperemo il cazzo alla Marcegaglia come pochi al mondo. Abbiamo spostato i segugi da Montecarlo a Mantova», (il punto nevralgico degli interessi economici e familiari del presidente di Confindustria, spiegano i pm). Porro non ha difficoltà a spiegare quanto accaduto: «Sono dieci anni che sento Arpisella e dal tono scherzoso e dalla dimestichezza nel farci le battute reciproche, è impossibile credere che io avessi intenzione di minacciare qualcuno».   Un colossale malinteso, insomma, nel quale - è la tesi di Sallusti, Feltri e Porro - si è inserito il pm napoletano che, a loro giudizio, ha qualche motivo di astio nei confronti del quotidiano dopo l'articolo di qualche settimana fa con il titolo «Il pm delle cause perse» sull'assoluzione di Vittorio Emanuele. La presidente di Confindustria, in ogni caso, secondo quanto ha raccontato lei stessa agli inquirenti in quanto persona informata dei fatti lo scorso 5 ottobre, ha avuto la percezione di «un rischio reale e concreto per la mia immagine e la mia persona». Il suo ufficio stampa - secondo le registrazioni - ha anche contattato Mediaset richiedendo un intervento di Fedele Confalonieri. Feltri ha ricevuto da lui una telefonata, nella quale voleva sincerarsi dell'esistenza di una «campagna a tappeto», ma ha risposto di non saperne nulla. Ieri, scherzando sull'idea di un'intervista per porre fine al presunto dossieraggio Vittorio ha risposto a suo modo: «La Marcegaglia parla ogni due minuti alla televisione e ci ha fatto venire il latte alle ginocchia. Anzi, se permettete ci ha rotto i coglioni, altro che intervista».   «Non abbiamo alcun dossier. Se avessimo una notizia la pubblicheremmo, questo è il nostro lavoro - spiega Sallusti nell'insolito ruolo di chi risponde alle domande dei giornalisti - Capisco che la Marcegaglia abbia potuto sentire minacciata la sua immagine. È un po' quello che accade a Berlusconi e Schifani. Solo che i carabinieri non entrano alle sette del mattino nella redazione de Il Fatto o di Repubblica. Né io vorrei che lo facessero», afferma, annunciando di aver dato mandato di querelare il procuratore Lepore per diffamazione. La conclusione è assai pericolosa: se a fare inchieste giornalistiche sono i quotidiani che attaccano il premier e i suoi, sono tutti pronti a difendere la sacra libertà di stampa. Se a svolgere il proprio lavoro sono tutti gli altri, le indagini - qualora ve ne fossero - diventano intimidazioni, dossier, killeraggi. Subito pronti a cavalcare l'onda («La Marcegaglia come Fini») ci sono i finiani, abili nello scandalizzarsi per «strategie oscure e torbide», e ritirar fuori le barbe finte. Di certo, poi, non aiutano le buste contenenti sacche di sangue, probabilmente infetto, recapitate alle redazioni di Libero e Il Corriere della Sera. Il biglietto allegato recita: «Ai maggiori quotidiani per la disperazione dovuta alla vergognosa Finanziaria che nega il diritto alla rivalutazione dell'indennizzo che è ferma dal 1995», per gli ammalati da trasfusione da epatite C. «Vendo sangue infetto da epatite C - si legge nel messaggio - per trasfusione al prezzo di 550 euro con sconti particolari per i parlamentari» e «ulteriori sconti per Berlusconi e Tremonti».

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