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Quando Fini indagava sui pm

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Il presidente della Camera Gianfranco Fini

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Sarà forse l'ultima svolta di Gianfranco. No alla commissione d'inchiesta sulle collusioni pm-sinistra come chiesto da Berlusconi. Non un diniego espresso direttamente ma per interposta persona, attraverso Italo Bocchino, capogruppo alla Camera di Fli. Strano. Perché un tempo, neppure troppo lontano, Fini sosteneva l'esatto contrario. Accadde precisamente il 28 ottobre del '99 quando l'allora presidente di An spiegò che il suo partito era sempre più convinto di costituire una commissione parlamentare su Tangentopoli, allargata anche «al finanziamento sovietico all'ex Pci». E aggiunse: «Se il procuratore capo di Milano Gerardo D'Ambrosio ha detto che i soldi li hanno presi tutti mi chiedo perché la Procura di Milano ma anche le altre non hanno accertato responsabilità, ad esempio, per i partiti della sinistra. Allora ci si deve chiedere perché le indagini non hanno accertato come anche gli altri partiti hanno preso i soldi. Quindi, siamo sempre più convinti - concluse Fini - della necessità di costituire la commissione parlamentare su Tangentopoli, allargata anche al finanziamento sovietico all'ex Pci». Vabbè, si sarà trattato di una battuta estemporanea. Niente affatto. Il 15 novembre aggiunse: «Ogni qualvolta sentiamo dalla sinistra motivazioni, più o meno comprensibili, per opporsi all'istituzione della commissione d'inchiesta, ci rafforziamo in un convincimento: la sinistra ha qualche cosa da nascondere. Riteniamo, cioè, che molto è stato detto, molto è stato scritto, molte verità sono state rivelate, ma non tutte. E tra quelle che rimangono, a nostro modo di vedere, ancora oscure ci sono - concluse Fini in quella metà novembre - verità scomode per la sinistra italiana». Verrebbe da chiedere, seguendo il ragionamento finiano di allora, se è Fli oggi ad avere qualcosa da nascondere. Oppure fu un abbaglio momentaneo di Fini. Macché, due settimana dopo - il 29 novembre - i leader del Polo decisero di diramare una nota congiunta con la quale insistevano con la necessità di istituire questo organismo parlamentare d'inchiesta perché, spiegavano, il rapporto politica-giustizia e «il carattere politicamente partigiano di troppi procedimenti giudiziari» devono essere oggetto «di un limpido confronto a cui la classe dirigente del Paese non si può e non si deve sottrarre». E chi erano i leader del Polo all'epoca? Silvio Berlusconi, certamente. E poi Gianfranco Fini e Pier Ferdinando Casini che guidavano An e Ccd. Il centrodestra infatti sperava di disarticolare la complicata maggioranza che all'epoca teneva in piedi il governo D'Alema sostenuto dai voti determinanti dei socialisti di Boselli e quelli democristiani seguaci di Francesco Cossiga. Baffino cercò di placare gli animi chiedendo di tenere la giustizia fuori dal dibattito politico ma Silvio, con Gianfranco e Pier incalzava. E in quella nota si spinsero contro l'appello di D'Alema: «Su questo punto il nostro dissenso è e resta forte. Noi riteniamo che l'intreccio tra politica e giustizia, l'uso distorto che parti politiche hanno fatto di alcune vicende giudiziarie e il carattere politicamente partigiano di troppi procedimenti giudiziari debbano essere oggetto di un limpido confronto a cui la classe dirigente del Paese non si può e non si deve sottrarre». Berlusconi, Fini e Casini sottolinearono come «il funzionamento della giustizia, il suo equilibrio, la sua indipendenza e soprattutto le garanzie dovute ai cittadini, a tutti i cittadini, fanno parte a pieno titolo del discorso pubblico che riguarda il futuro del Paese». «Se questo discorso si vuole approfondire - conclusero - senza spirito di fazione, noi siamo disponibili. Se questo discorso si vuole invece archiviare in nome del vantaggio della propria parte, noi siamo e restiamo fortemente contrari». Oddio, viene da stropicciarsi gli occhi. Ma non può essere Fini. O almeno non è lo stesso Fini di oggi. Sarà il fratello, un sosia. Come certamente sarà un sosia di Antonio Di Pietro colui che il 17 settembre di quell'anno scrisse al Corriere della Sera una lettera nella quale si diceva favorevole alla nascita della commissione su Tangentopoli a patto però che non si esprimesse su sentenze passate in giudicato. E lo stesso Di Pietro votò poi a favore dell'organismo il 16 marzo del 2000 mentre Casini minacciava: «Attenti, cercano di snaturarla perché hanno paura della verità». E il presidente della Camera? Allora era un certo Luciano Violante (Ds), che propose: «Istituire una commissione parlamentare d'inchiesta su Tangentopoli che contribuisca alla riconciliazione nazionale e varare misure capaci di frenare la trasmigrazione di parlamentari da un gruppo all'altro».

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