Così rischia un altro Elefantino
Fininon era convinto della svolta, ma si decise comunque a lanciare un partito in versione "reloaded", fare un passo avanti e mettersi in scia dell'uomo di Arcore per sfruttare la velocità di Forza Italia e provare a superarlo in curva. Fini fin dal primo giorno di questa avventura ha pensato a Berlusconi come a un parvenu della politica. Pensava: Silvio prima o poi si stuferà e tornerà in televisione a fare Drive In. Per poi lasciare ovviamente il posto a lui, un professionista della politica. Cinque anni dopo la discesa in campo di Berlusconi, Fini si ritrova al suo personale punto di partenza e con un conflitto interiore irrisolto, quello dell'eterno numero due, sempre fermo al primo giro del pretendente al trono. Il suo obiettivo non è mai stato quello di far crescere il partito, ma di diventare il leader assoluto dell'area politica attraverso un subentro al Cav più o meno forzato. Per questo i risultati elettorali di Alleanza nazionale non sono mai stati la sua vera occupazione e preoccupazione. Appena Berlusconi entra in crisi grazie anche ai colpi della magistratura, siamo alla fine degli anni Novanta, Fini si fa sotto e nel 1999 matura il primo strappo ufficiale: parte l'avventura dell'Elefantino con Mario Segni. Nello zoo della politica c'è un gigante del regno animale. Fini le prova tutte. Offre una candidatura anche a Vittorio Feltri, il direttore del Giornale a cui oggi gli piacerebbe tanto far saltare la testa. Paradossi della storia. Che punisce Fini perché il risultato elettorale delle elezioni europee al posto di un Elefantino disegna una pulce: il partito raccoglie circa 3 milioni di voti, elegge nove parlamentari europei, fa un 10,3 per cento ma l'avversario in crisi da travolgere, Forza Italia, segna sul pallottoliere oltre sette milioni e mezzo di voti e supera il 25 per cento dei consensi. L'Elefantino si schianta a terra. Fini si dimette da An (letterina respinta) e Segni si consola con un seggio in Europa. Da questo momento Fini agisce di conserva e giostra con la tattica di Palazzo. S'inventa con Marco Follini la stagione surreale del «subgoverno» e costringe Berlusconi a far fuori il ministro dell'Economia Giulio Tremonti. Una brutta pagina per il centrodestra. Tremonti viene richiamato qualche mese dopo di fronte allo spettro di una finanziaria con i fogli in bianco, Berlusconi, dato da tutti per spacciato, pareggia le elezioni, Prodi prova lo stesso a governare, Fini maramaldeggia e spera ancora nel tramonto del Cav, il quale invece fiutando le elezioni e non volendosi far cucinare da An fa la svolta del predellino, s'arrampica sullo sportello di un'auto in piazza San Babila a Milano e fonda il Pdl. Fini commenterà così la sortita di Silvio: «Siamo alle comiche finali». Poi smette di ridere, apre lo sportello e sale anche lui in macchina, diventa cofondatore del partito, elegge i suoi coordinatori ma nello stesso tempo mette in piedi una metamorfosi kafkiana passando dal destrismo al futurismo. E siamo all'oggi, all'estate di Montecarlo, al «che fai mi cacci», ai probiviri, all'uscita dal Pdl, alla fondazione di un gruppo parlamentare e poi di un partito in cerca d'autore. Fini ha in mente il regicidio (metafora politica) da sempre. Il colpaccio non gli è mai riuscito e questa è davvero la sua ultima occasione. Il problema è che i partiti nati da operazioni di palazzo non hanno grande fortuna. Come nel caso dell'Elefantino, Fini tenta l'operazione alchemica in laboratorio, scommette su se stesso e un manipolo di avventurieri che insieme riescono a sostenere tutto e il contrario di tutto: dall'ecologismo antinuclearista al progressismo rock. Non conosciamo il peso elettorale dei finiani, i sondaggi sono i più fantasiosi e vari, ma a giudicare dai discorsi di quelli che non si sentono dei Granata, le elezioni le temono. Vestiranno il loro manifesto politico con i colori futuristi di Balla. Vedremo quante stagioni riusciranno a ballare.