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di UGO BERTONE «Ad agosto siamo stati fortunati».

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Soloil giorno prima, quando il premier italiano era alle prese con il dibattito a Montecitorio, il suo collega portoghese era a Bruxelles per presentare una cura da cavallo per l'economia di Lisbona: un taglio del 5% ai salari pubblici assieme ad un aumento dell'Iva di un paio di punti percentuali. Il tutto nell'intento di evitare la sorte dell'Irlanda, alle prese con una crisi bancaria che ha provocato un'impennata del deficit pubblico: il 32% sul pil, accompagnato dalla promessa di rientrare entro il 3%, come richiede la Ue, entro il 2014: una «mission impossibile». Insomma non è difficile capire che l'Europa, alla ricerca di capitali per finanziare le emissioni di bond, è un bersaglio ideale per la speculazione: una moneta artificialmente «forte», grazie alla politica imposta dal partner tedesco; paesi con un altrettanto «forte» debito strutturale. Anche un banchiere alle prime armi, in una cornice del genere, può speculare senza troppa spesa (e senza troppi rischi) contro un Paese debole. Insomma, si può capire Berlusconi quando dice che «tutte le mattine seguiamo con il cuore in gola le emissioni del debito pubblico». Anche perché l'Italia, come ripete Tremonti, «ha il terzo debito pubblico del mondo senza avere la terza economia del mondo». Eppure, almeno finora, l'attacco contro i Bot e i Bond non c'è stato. Certo, non è mancata la pressione sui Cds, il segmento meno trasparente e più speculativo del grande casinò della finanza. Ma anche le ultime aste del Tesoro, in settimana, hanno dimostrato che la domanda tiene e, di riflesso, i costi a servizio del deito non salgono. Non era così scontato, sia per l'entita dell'offerta che per le tensioni ai vertici di Unicredit, che tanto hanno preoccupato Tremonti. O ancor di più, naturalmente, per la congiuntura politica generata dall'attacco al governo subito dopo l'approvazione della Finanziaria. Perché l'Italia ha retto a questi scossoni? Delle due l'una: o la grande finanza è distratta. Oppure, la biasimata politica di casa nostra ha saputo rispondere alla crisi in maniera più efficace di altri. Certo, un ruolo determinante gioca la solidità dei risparmi delle famiglie. Ma non era poi così scontato che questi risparmi, così come gli investimenti dei grandi investitori istituzionali, venissero indirizzati verso i Btp. Nonostante tutto la Repubblica Italiana continua ad ispirare fiducia. Il motivo? La coerenza con cui si è difeso il bilancio da nuovi attacchi alla diligenza. La capacità di resistere alle tentazioni della «politica industriale» che, il più delle volte, altro non è che la richiesta indiscriminata di fondi da destinare a imprese decotte o in via di rapido deterioramento. L'«avarizia» nei confronti del sistema bancario, che non solo non ha ricevuto aiuti di Stato ma deve fare i conti con il fisco, più rigido che altrove in materia di deduzioni su sofferenze ed incagli. Per carità. La situazione resta a rischio. Anzi, o si procede rapidamente sulla strada del rigore e della riforma fiscale, oppure i riflettori della crisi finanziaria punteranno presto anche verso il Bel Paese. Perciò sarebbe criminale fare giochetti a spese della realizzazione del programma. Così come lo sarebbe gettare all'aria quel che si è fatto finora. Che non è poca cosa se si guarda ai vicini.

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