Così va in onda il dimesso Fini
Signore e signori, ecco a voi il dimesso Fini. Raramente mi è capitato di vedere un leader politico che si presenta all'appuntamento della verità con le ruote sgonfie. Ventiquattr'ore prima il tam tam raccontava di un uomo pronto a dar battaglia, ma qualcosa deve aver consigliato a Gianfranco di cercare una via d'uscita dal pantano in cui s'è cacciato con i suoi fragorosi silenzi. Fini, ancora una volta, ha affidato a un monologo la sua difesa. È la conferma di una debolezza enorme. Dalle parole è emerso un profondo disagio, la consapevolezza di avere le polveri bagnate e tutti i lati del suo fortino scoperti. Neppure un avvocato con un passato burrascoso in politica e una bizzarra memoria che afferma di sapere chi è il proprietario della casa di Montecarlo è riuscito a fornirgli un assist. Se questa doveva essere la riscossa del conducator, i finiani stanno freschi. Se questo è il generale da seguire, è bene che la truppa rifletta sul da farsi. Fini è apparso immerso in una situazione familiare ingarbugliata, travolto dall'azione di un cognato-caterpillar che prima gli ha indicato il compratore per la casa, poi ha pensato bene di affittarsi il quartierino che ora non lascia nonostante Fini l'abbia implorato di farlo. E questa sarebbe la terza carica dello Stato. Fini aveva il morale sotto i tacchi. E si è visto in maniera lampante. Persino quando ha giocato la carta delle sue dimissioni se emergerà una verità pesantissima - Tulliani dietro le società offshore - aveva il tono di chi lo faceva perché obbligato a calare qualche asso in una mano di poker dove aveva già perso tutto quello che c'era da perdere per un politico: la credibilità. Il paradiso fiscale dell'isola di Santa Lucia per Fini s'è trasformato in un inferno. Ai politici capita spesso di perdere il contatto con la realtà, di non rendersi conto che il potere non è una cambiale in bianco, che i giornali non sono buche delle lettere, che lo scenario è cambiato. Fini è ancora fermo all'era del subgoverno con Marco Follini, il periodo in cui voleva una cabina di regia per Palazzo Chigi e chiedeva a Silvio Berlusconi la testa di Giulio Tremonti e la otteneva. Fini ha continuato ad immaginare un quadro politico in cui poteva condizionare il governo fino a tenerlo in ostaggio. Lo faceva già dentro il Pdl, conta di farlo ancora con il gruppo di Futuro e Libertà. Ma se in passato questo gli è riuscito, almeno in parte, ora se non impossibile è molto difficile. Il suo discorso, soprattutto la conclusione, è figlio di questo schema mentale. Quando chiede a Berlusconi - senza mai nominarlo - una tregua, immagina che con un colpo di telefono il presidente del Consiglio possa ordinare ai giornali lo stop sul caso Tulliani. È un errore colossale. Non so chi sia il suo consigliere su questi temi, ma se questo è il suo obiettivo, non lo raggiungerà mai. Viviamo in un altro mondo, ma Fini questo non l'ha capito e con lui molti altri politici che non colgono quel che sta accadendo. Quando ero vicedirettore di Libero, nell'estate del 2009, spiegai alla Summer School di Magna Carta che era iniziata una stagione diversa per il mondo dei quotidiani e che la politica non sarebbe più stata la stessa e ci saremmo avvicinati a tappe veloci verso un giornalismo d'inchiesta sempre più forte e marcato, come da decenni esiste in altri Paesi. Dissi chiaramente ai politici che mi chiedevano cosa stava accadendo che la Repubblica, occupandosi delle lenzuola del premier, aveva rotto un argine e che tutti gli altri - a destra e a sinistra - avrebbero a quel punto fatto altrettanto. Non per ragioni politiche, ma di mercato, edicola, copie vendute. In quel periodo a sinistra stava nascendo Il Fatto di Marco Travaglio e Antonio Padellaro e dunque in quell'area ci sarebbe stato un rimescolamento di temi e una concorrenza aspra sul piano delle inchieste giornalistiche. Altrettanto stava succedendo sul fronte della stampa di centrodestra, con il ritorno di Vittorio Feltri a Il Giornale e l'arrivo di Maurizio Belpietro a Libero. In questo solco si è collocato anche Il Tempo. Tutto questo è accaduto non per questioni di Palazzo, ma perché il mercato editoriale premia solo i giornali che hanno identità, anima, dicono ai loro lettori cosa sono. La recessione del 2008 ha spazzato via le strampalate teorie degli esperti di marketing e si è tornati alle origini di questo mestiere: i giornali si fanno per i lettori che vanno in edicola e cercano notizie originali, non la rimasticatura di Televideo, delle agenzie o dei tg. Gli editori lo sanno e cercheranno sempre più direttori in grado di fare bene questo lavoro e tenere in piedi la baracca. Punto. Fini dovrà farsene una ragione: il caso Tulliani si esaurirà quando non ci saranno più notizie da pubblicare. Vale per lui e chiunque stia al potere e diventi protagonista di un fatto che è degno di esser raccontato e impaginato. Anche in questo caso, Fini è stato deludente: ha definito la sua vicenda un «affare privato» e ha dimenticato che lui è il Presidente della Camera e la vicenda di Montecarlo non è una robetta da liquidare in due righe. In qualsiasi altro Paese avrebbe già dovuto convocare una conferenza stampa e affrontare i giornalisti, non cavarsela con videomessaggi tristi come una telenovela sudamericana. Cosa succederà ora? Fini ha lanciato un segnale chiarissimo: è alle corde, ha bisogno di una tregua e ha messo sul piatto anche le sue dimissioni. Ma se ripassiamo bene il suo discorso ci sono dei punti che meritano attenta riflessione: senza mai nominarlo, ha attaccato continuamente Berlusconi, il suo modo di far politica, il suo stile di vita e perfino le scelte delle sue aziende. Non sono delle buone premesse per stipulare una tregua, seppure armata. Vedremo cosa accadrà nei prossimi giorni. E quale sarà il tenore del discorso che il Cavaliere terrà in Parlamento. Ora la palla passa a lui. Ha davanti a sè due possibilità: affondare il colpo e dividere il presidente della Camera dai finiani, oppure fare la mossa di accogliere la richiesta di tregua di Fini e vedere se regge. Penso che farà così. E i giornali continueranno a fare il loro mestiere.