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segue dalla prima di MARIO SECHI Un po' poco per fermare i fatti e soprattutto Il Fatto, il giornale fondato da Marco Travaglio e diretto da Antonio Padellaro che ha anticipato tutti e per primo (bel colpo ragazzi) ha raccolto la testim

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Comunquevada a finire, il caso Tulliani passerà alla storia come un gigantesco fiasco di comunicazione politica. Il presidente della Camera quando il pasticciaccio del cognato in affitto è venuto a galla, avrebbe dovuto presentarsi subito di fronte a una conferenza stampa e raccontare tutta la verità. Anche quella più scomoda e dolorosa. Ha scelto invece una linea prima omertosa, poi quella da furbetto del dico e non dico, infine - di fronte a una situazione insostenibile - ha deciso di sollevare il classico «polverone», bollare la lettera come «una patacca», far emergere, attraverso le parole di Italo Bocchino ad Annozero, la teoria del complottone, tirare in ballo i Servizi Segreti, la Spectre, James Bond. Un colossal buono per le gesta comiche del commissario Clouseau. Non bastando le barbe finte, s'è scomodato lo scontro tra potenze globali, con magari Obama impegnato a chieder lumi sull'appartamento di Montecarlo. Più che un thriller internazionale, un romanzo umoristico. Roba buona per la fiction dozzinale non per la politica. Fini ha costruito con le sue mani (e i suoi silenzi) la botola in cui è cascato. Qualcuno, nelle settimane scorse, gli aveva consigliato di cambiare passo e strategia, lasciar perdere questa linea che l'avrebbe condotto al suicidio. Niente. Forse pensava e sperava che la tempesta mediatica prima o poi si sarebbe placata, che i giornali si sarebbero stancati, che tutto si sarebbe concluso a tarallucci e vino. Grave errore. La fortissima concorrenza che s'è creata tra i quotidiani è un toccasana per la libertà di stampa. Nessun direttore con le palle si sogna di imboscare una notizia sul caso Tulliani. Chi ce l'ha, la pubblica. E gli altri seguono a ruota e ci danno dentro con la cronaca e il commento perché è la stampa bellezza e tu non puoi farci niente. La grande lezione che viene dal caso Tulliani è che il giornalismo è più vivo che mai, con buona pace dei parrucconi di regime. I giornali hanno fatto il loro mestieraccio di sempre. Piaccia o non piaccia, questa è la verità. E ora che succede? In un Paese normale, Fini lascerebbe la presidenza della Camera. Per difendersi meglio. Per dignità istituzionale. Per rispetto di quelli che hanno creduto nella sua campagna di novello moralizzatore. Per lealtà nei confronti dei parlamentari che in buonissima fede gli hanno creduto fino a seguirlo in un'avventura spericolata come quella di Futuro e Libertà. Tutto questo Fini dovrebbe farlo se non per senso dello Stato almeno per sfuggire al ridicolo. E sarebbe la prima cosa giusta che fa dopo mesi e mesi di errori, strappi, discorsoni da statista di carta. Temo invece che non avremo questo dignitoso scenario, ma qualcos'altro. Qualcosa di terribile. Siamo alla vigilia di una guerra senza quartiere dove non si faranno prigionieri. Fini guiderà la sua battaglia personale stando seduto sullo scranno di Montecitorio. Sarà arbitro e attaccante. Guardalinee e tifoso. Allenatore e Presidente. Un paio di parti in commedia di fronte a un Parlamento che sta per trasformarsi in una trincea quotidiana dove pioveranno palle di cannone. I finiani ieri hanno già fatto balenare l'antipasto. Per loro (Italo Bocchino dixit) le parole del ministro della Giustizia di Santa Lucia «non provano nulla» perché l'isola «è un paradiso fiscale dove si generano società offshore e si sa come vanno le cose...». Appunto, caro Bocchino, se «si sa come vanno le cose...» in quel paradiso fiscale nel mar dei Caraibi, un leader politico non autorizza la vendita di un appartamento ereditato da An per volontà di una donna di nobili principi come la contessa Anna Maria Colleoni, a una società che ha sede proprio in quel posto dove «si sa come vanno le cose...». Se «si sa come vanno le cose...» non si consente al cognato di prendere in affitto un appartamento a Montecarlo da un'altra società che ha sede sempre in quel posto dove «si sa come vanno le cose...». Se «si sa come vanno le cose...», non si impartiscono ordini supremi e inderogabili per concludere transazioni immobiliari fiscalmente opache, scaricando la responsabilità sul povero senatore Pontone, l'unico che in questa vicenda ha la coscienza a posto. Se «si sa come vanno le cose...», non si svende un bene al primo che passa per un paradiso fiscale dove «si sa come vanno le cose...». Se «si sa come vanno le cose...» non si alza il sopracciglio con fastidio e non si grida al complotto quando Il Corriere della Sera, la Repubblica, Il Giornale, Il Tempo, Libero, l'Espresso e tutta la stampa in coro ti chiede in prima pagina come mai un tuo parente firma un contratto d'affitto con una società del posto dove «si sa come vanno le cose...». Se «si sa come vanno le cose...», chiedi a tuo cognato come mai conosce certa gente che lavora in quell'isola dove «si sa come vanno le cose...» e lo inviti a lasciare la casa che casualmente era patrimonio del partito di cui eri leader, giusto perché quello - come dice il tuo fido Bocchino - «è un paradiso fiscale dove si generano società offshore e si sa come vanno le cose...». Se «si sa come vanno le cose...», allora non si fanno queste cose.

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