Nella sinistra anti-premier si salva solo Di Pietro
Peggio ancora di Gianfranco Fini, e dei suoi più fanatici seguaci, dalla vicenda della casa monegasca svenduta al cognato esce l'opposizione. Fatta eccezione, va detto con onestà, per Antonio Di Pietro. Il quale è stato l'unico, da quelle parti, a conservare una certa lucidità da quando è scoppiato il caso e a non compromettersi in una difesa a tutto campo del presidente della Camera per festeggiarne l'approdo su posizioni antiberlusconiane. Egli era stato l'unico, in particolare, a non scambiare per buone e sufficienti le contraddittorie e lacunose spiegazioni fornite da Fini sull'ambiguo percorso che aveva consentito a Giancarlo Tulliani di disporre di una casa tanto generosamente quanto ingenuamente lasciata in eredità dalla vedova Colleoni al partito di destra allora guidato da Fini. Era stato l'unico dalle sue parti, il pur sfascista Tonino di Montenero, ad avvertire puzza di bruciato nei balbettii o nei silenzi di Fini e a reclamare spiegazioni più convincenti, lasciando intendere di sospettare che non ce ne potessero essere. Ancora ieri i giornali riportavano gli insulti riservati ai critici di Fini da Enrico Letta, il vice segretario che viene generalmente accreditato come uno degli esponenti più moderati e ragionevoli del principale partito d'opposizione. Secondo il quale il presidente della Camera sarebbe stato vittima di un "clima di killeraggio e di dossier", naturalmente alimentato dal solito Berlusconi e dai giornali che lo sostengono, o da quelli di famiglia. Non parliamo poi dei vari Pier Luigi Bersani, Massimo D'Alema, Walter Veltroni, Rosy Bindi, Franco Marini e compagni o amici, che litigano, anzi si sbranano su tutto ma si ritrovano sempre insieme quando ritengono di avere individuato un buon cavallo su cui poter saltare per la solita carica contro il presidente del Consiglio. Agli occhi di tutti costoro Fini è stato per tutta l'estate soltanto l'inviolabile "terza carica dello Stato", da puntellare ad ogni costo. C'è mancato poco che la magistratura non fosse invitata a procedere per attentato al funzionamento dello Stato, o qualcosa di simile, contro chi osava turbare la quiete e i disegni politici del presidente della Camera. Come si pretese, e si ottenne, a suo tempo per proteggere l'allora presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro dal fango che rischiava di travolgerlo per l'uso di alcuni ingenti fondi riservati attribuitogli negli anni in cui era stato ministro dell'Interno. Quanto più diventava insostenibile la posizione di Fini, tanto più i suoi amici alzavano la voce contro il presidente del Consiglio. E si abbassava quella di giornali che anche sul versante di sinistra avevano mostrato ad un certo punto qualche riserva o perplessità. Il caso più clamoroso è quello della Repubblica, opportunamente ricordato ieri da Mario Sechi, prima ancora che il ministro della Giustizia dell'isola di Santa Lucia confermasse il sospetto avanzato in estate pure dal direttore Ezio Mauro che il cognato di Fini fosse diventato non solo l'inquilino ma anche il proprietario, o qualcosa di simile, del controverso appartamento monegasco venduto da Alleanza Nazionale su ordine dello stesso Fini. A sinistra si è ripetuto a livello giornalistico quello che è accaduto a livello politico. La Repubblica e l'Unità, i maggiori o più blasonati giornali di riferimento dell'opposizione, per inseguire Fini nella sua contorta battaglia politica contro Berlusconi si sono fatte fregare professionalmente dal vascello corsaro di Antonio Padellaro. Che con il suo Fatto Quotidiano ha scovato per telefono in Svizzera il ministro della Giustizia dell'isola caraibica di Santa Lucia e ne ha anticipato la conferma dell'autenticità delle rivelazioni da lui fatte sul ruolo del cognato del presidente della Camera. Sul fronte dell'opposizione non può infine essere sottaciuta anche la brutta figura di Pier Ferdinando Casini e di Francesco Rutelli, altri due "moderati" che hanno scambiato per "squadrismo" per tutta l'estate le inchieste giornalistiche su Fini.