Partiti di leader sconfitti

Se qualcuno aveva ancora dei dubbi la giornata di ieri dovrebbe averli cancellati definitivamente. Quello di Fini ormai è un vero partito, autonomo. Fedele, a parole, al programma di governo, ma con l’obiettivo di mandare in pensione il Premier. Non perché in realtà è in rotta di collisione con il programma del Pdl, ma perché l’ex leader di An mal sopporta di essere un numero due. Ha l’ambizione o la presunzione di voler rappresentare la destra moderna. Vuole essere l’unico beneficiario del patrimonio della destra italiana. Anche se per il momento l’unica eredità di cui ha avuto disponibilità è a Montecarlo. Comunque i sogni di gloria del presidente della Camera sono anche l’effetto di quel virus moderno della politica: tutti i protagonisti scalpitano e non accettano di condividere la responsabilità con altri. Tutti leader, tutti capi. Demolitori di quel progetto di dar vita anche in Italia al bipartitismo. La strada sembrava tracciata con la nascita del Pd e del Pdl. Ma, diciamolo con chiarezza, questo obiettivo è saltato. Non per scelte ideologiche, ma per vanità e presunzione. Le sigle sono solo la copertura di partiti personali. La lista è lunga. Oltre a Fini c’è il partito di Casini, di Rutelli, di Di Pietro, di Mastella, di Vendola. E in futuro forse avremo quelli di Veltroni e di Montezemolo. Sono nati come vestiti su misura di leader che non vogliono accettare di dividere il poco o grande potere con gli altri. Vogliono essere padroni in casa a costo di accontentarsi di percentuali elettorali da prefisso telefonico. Pensate a Rutelli, è andato via con pochi intimi. E Fini, quando ai sondaggi si sostituiranno i voti reali avrà la forza di garantire ai suoi seguaci le stesse posizioni? E Mastella, se non fosse stato recuperato da Berlusconi con il suo gruppetto di fedelissimi campani, potrebbe solo fare l’incursore tra i due grandi partiti o minacciare di candidarsi a sindaco di Napoli. Se lo facesse da solo quali risultati avrebbe? Di Pietro si è ben guardato dal tenere fede all’impegno preso con Veltroni, lui ha un suo partitino e non lo molla. Del resto Veltroni dopo aver guidato il Pd non vuole rientrare nei ranghi. Riunisce i suoi e poi si vedrà. Tutti leader, tutti capi. Tutti aspiranti Berlusconi. Tutto ha origini lontane. A quel 1993 quando l’imprenditore Berlusconi decise di scendere in campo. Non aderendo a nessuno dei partiti sopravvissuti al terremoto di Tangentopoli, ma formandone uno suo, capace di raccogliere i voti di un esercito scomposto di elettori e dirigenti politici che non avevano alcuna voglia di arrendersi alla gioiosa macchina da guerra di Occhetto e che videro nel Cavaliere l’uomo in grado di respingere l’attacco e di portarli alla vittoria. Così fu. Quel ruolo di leader Berlusconi lo ha conquistato sul campo. E da allora la sua figura, amata o odiata è stata copiata. Con esiti disastrosi per chi ci ha provato. Prendete il Pd. Da 15 anni è alla ricerca di un capo carismatico. Ed è stato un tritacarne. Veltroni, Franceschini ora Bersani. Intanto si affacciano all’orizzonte Vendola, Chiamparino. E dietro l’angolo ci sono Profumo e Montezemolo e c’è chi vorrebbe rispolverare il pensionato Prodi. Ma il professore si tiene alla larga dalla beghe. Invece ci squazza Vendola, il governatore della Puglia, che da tempo si è fatto un partito e per questo ha le mani libere. E anche lui sogna di essere il vero erede del patrimonio della sinistra. Invece non è andato in pensione Veltroni. Finocchiaro giura: non sarà il nostro Fini. Ma Walter se la sente di allinearsi a Bersani? Per il momento però in qualcosa imita Fini, se non altro riunendo i fedelissimi. Non un gruppo, ma un documento. Ma gratta gratta è poi tanto diverso? Poi ci sono quelli che pensano di poter rappresentare la vecchia Dc. Non si sono rassegnati all’implosione irreversibile della balena bianca. Mastella e Casini provarono a fare un partito insieme. Poi la divisione: ognuno padrone in casa propria. Padrone. Basta vedere cosa dicono di Casini i dissidenti dell’Udc. Più o meno le stesse parole che usano gli avversari di Berlusconi. Tutti dovrebbero mostrare religiosa fiducia nelle potenzialità del terzo polo. Inutile dissentire, chi non crede va fuori. E dentro il partito dell’ex pm Di Pietro c’è un aperto dibattito interno? O tutto è guidato con mano ferma da Tonino che decide chi premiare, chi punire o chi cacciare se dissente. Il panorama che ne esce fuori è desolante. Non nascono partiti o gruppi per rivendicare un progetto alternativo, non parliamo di valori o di principi, ma almeno di programmi. No, nascono perché ognuno cerca una personale visibilità. Perché spera di contare al momento della spartizione dei posti se può mettere sul piatto della bilancia un proprio peso. Soprattutto perché morti i partiti della Prima Repubblica nessuno ha saputo creare qualcosa di diverso. Semmai hanno cercato tutti o quasi di copiare l’unico che ha costruito qualcosa di alternativo. Insomma il modello è diventato Berlusconi. Lo criticano, lo contestano, lo attaccano, ma tutti vorrebbero seguirne le orme. E tutti vorrebbero o sognano di prendersi pezzi del Pdl o del Pd. Fini punta al bersaglio grosso. Casini aspetta che i due grandi deflagrino per raccoglierne i pezzi. Di Pietro vuole essere il più puro degli antiberlusconiani e vuole strappare i voti del Pd. E gli elettori? Possono assistere a questa corsa di aspiranti leader? Se nonostante tutto i consensi sono ancora per Berlusconi una ragione ci sarà.