C'è una destra che inganna
Dio è morto, Marx è morto e neanche io mi sento tanto bene. Mi viene in mente questa battuta di Woody Allen se penso allo scenario politico italiano dove in entrambi i poli le cose non mi pare vadano alla grande. Alla situazione ormai patologica del Partito democratico, s’è aggiunta infatti una surreale crisi del Popolo della Libertà. La formazione politica fondata da Silvio Berlusconi e Gianfranco Fini è finita in una situazione paradossale: vincente in tutte le ultime tornate elettorali a vario livello, si ritrova a dover raccattare qua e là i voti per assicurare al governo una maggioranza autosufficiente. Il presidente della Camera ha deciso non di dar vita a una minoranza interna, ma a un vero e proprio gruppo d’opposizione al partito. In queste condizioni, la scissione è automatica e tutti i discorsi sul pluralismo interno, la dialettica e la libertà non c’entrano proprio nulla con quel che s’è creato, cioè un partito allo stato nascente. Neanche la pazienza di Giobbe può reggere un simile pasticcio. E infatti la rottura è arrivata, il divorzio tra Silvio e Gianfranco s’è consumato con gran frastuono di piatti e bicchieri. Ora siamo quasi giunti al primo vero giro di boa di questa storia italiana: mancano sette giorni al discorso del Cavaliere in Parlamento, quello dove non si misureranno solo i voti (fondamentali) ma anche le intenzioni e il programma del governo e le risposte del gruppo dei finiani. Il problema non è nei numeri (non mancheranno) ma nel profilo politico che si vuol dare alla legislatura. Molto dipenderà da quello che dirà il presidente del Consiglio in Parlamento. So che sta già lavorando al suo discorso, mi permetto non di dargli dei consigli, ma di mettere nero su bianco cosa si aspetta un liberale da un leader come Berlusconi in questo frangente delicatissimo. Sulla mia scrivania c'è un libro di Raymond Aron intitolato «Saggio sulla Destra». É un libro scritto nel 1957 e la sua attualità è sconvolgente. Aron, uno degli intellettuali più influenti del Novecento, indaga il rapporto complicato tra la destra e la modernità, tra un sistema di valori e le sfide che la società nel suo dispiegarsi sbatte in faccia alla politica. Sono almeno due le domande che dobbiamo porci: esiste ancora la destra della legge, della gerarchia, dell’ordine, della tradizione? E questi valori sono ancora attuali di fronte a una società in cui questi pilastri sembrano esser stati picconati per lasciar posto a una spensierata libertà che si traduce in diritti senza più doveri? Potrebbe sembrarvi, cari lettori de Il Tempo, un discorso astratto, accademico, troppo alto per un Palazzo in cui, in fondo, si pensa a tirare a campare e poi si vedrà. Invece no. Questo è il nocciolo del problema, qui sta il vero dissidio in corso tra Berlusconi e Fini, qui risiede la ragione ultima dello scontro tra i due, qui stanno i motivi per cui la pace è impossibile e una tregua contrattata sul voto determinante dei finiani per il governo può esser più letale di una guerra. Se la destra rappresentata dal Pdl è multiforme e declinabile in una parola, berlusconismo, quella finiana è a dir poco qualcosa di bizzarro. Un tempo diceva di guardare alla politica neogollista di Nicolas Sarkozy, ma la visione del presidente francese è qualcosa di più articolato di un commento di Fare Futuro o un comizio a Mirabello. Sarkozy sta consumando giorno dopo giorno la sua «rupture», la rottura con alcuni consolidati stereotipi della politica francese. Parigi ha vissuto sulla sua pelle la rivolta degli immigrati nelle banlieu, gli incendi nelle periferie e Sarkozy non ha esitato un minuto a chiamare «racaille», feccia, gli autori di quei disordini. In Italia i finiani sono impegnati in un percorso culturale inverso: hanno in mente un modello di integrazione degli stranieri simile a quello già fallito in mezza Europa, sono per la cittadinanza breve, per il voto rapido a tutti, in generale per una forte accelerazione nel rilascio di diritti. Il problema è che si parla poco dei doveri. E immigrazione vuol dire economia, lavoro, identità nazionale. Su questo tema il Pdl ha idee opposte a quelle di Fini. Speculare è anche l’atteggiamento su un problema delicato e socialmente dirompente come quello dei Rom. Tema di portata europea che Sarkozy ha affrontato con durezza. Gianni Alemanno - un uomo che viene dalla destra un tempo finiana - a Roma ha fatto da apripista sgomberando il più grande campo nomadi d’Europa, il Casilino 900. Che dice Fini? Su inizio e fine vita il leader di Fli ha idee più vicine a quelle del Pd che a quelle della destra classica, così pure su alcune linee guida della nostra politica estera, sull’autonomia del Paese nelle relazioni internazionali, sulla necessità di assicurarsi l’indipendenza energetica prescindendo dagli interessi strategici degli Stati Uniti ma confermando il nostro ruolo nella Nato e nelle missioni Onu, sul ruolo più dinamico che oggi ricopre la Farnesina. Se Berlusconi è un ibrido intriso di pragmatismo, Fini non può certamente considerarsi la destra italiana. Non lo può essere perché ha consumato uno strappo definitivo con la sua storia personale, politica e collettiva. Ha preso un’altra strada, ma accusa i suoi ex colonnelli di averlo tradito. Paradosso dei paradossi. Assistiamo, inoltre, a una metamoforsi kafkiana per cui gli ultimi sedici anni di scelte politiche sulla giustizia, sul ruolo delle procure, sullo squilibrio mostruoso tra accusa e difesa, vengono cancellati da Fini con un colpo di spugna, come se non vi avesse mai messo il timbro. E vediamo un suo fedelissimo, Fabio Granata, addirittura rimproverargli di essere troppo morbido, non in linea con il dogma del neogiustizialismo futurista che si avvicina spericolatamente al dipietrismo. Collaterale a colui che è l’espressione massima dell’antisistema di regime, cioè quell’Italia dei Valori che gioca elettoralmente allo sfascio ma vive e prospera nella denuncia dello sfascio e dunque, di fatto, è perfettamente incastonata e funzionale al regime che si propone di abbattere con furia cieca. Queste sono contraddizioni pesanti che il discorso parlamentare di Berlusconi, con finezza dialettica, deve esser in grado di far emergere. L’inganno va smascherato. In gioco non c’è solo il voto del Parlamento, ma il giudizio degli italiani.