I giudici e la P3
C’era una volta il "rito ambrosiano". Suo massimo sacerdote, al vertice della procura milanese, era il dottor Francesco Saverio Borrelli. Al quale, negli anni di Tangentopoli, piaceva ripetere: "non li arrestiamo per farli parlare, ma li liberiamo se parlano...". Rispetto ad allora, il codice di procedura penale ha disciplinato in termini assai più precisi il ricorso alla misura cautelare. Essa può essere disposta solo quando "per specifiche modalità e circostanze del fatto e per la personalità dell’indagato, desunta da comportamenti o atti concreti o dai suoi precedenti penali, sussiste il pericolo concreto che questi commetta gravi delitti della stessa specie di quello per cui si procede". Al di fuori di questa norma si è mossa finora la procura di Roma nell’indagine che dallo scorso 8 luglio ha aperto le porte del carcere agli uomini della P3 (Carboni, Lombardi, Martino). Non senza giocare a ping-pong con le libertà degli imputati, come amava un tempo il dottor Borrelli e come oggi non dispiace affatto al dottor Giancarlo Capaldo. Significativo quello che emerge nel caso della carcerazione preventiva di Arcangelo Martino. Essa non era stata affatto dettata dalle esigenze prescritte dall’articolo 274 del codice di procedura penale. Ma era stata ideata per ottenere dall’indagato determinate "confessioni" su chi potesse essere il Cesare tanto ricorrente nelle intercettazioni. Insomma, se fosse stato un ginecologo invece che un magistrato, si sarebbe potuto dire che il dottor Capaldo mirasse fin da principio al "parto cesareo". Non si comprende altrimenti il parere favorevole alla concessione dei domiciliari espresso dalla Procura a seguito dell’interrogatorio sollecitato da Martino dopo 40 giorni di carcere preventivo. Se non un premio alla confessione, la restituzione della libertà segnava un modo di onorare a Roma le memorie del "rito ambrosiano". Ed ha una sua logica anche il diniego del Gip, secondo il quale, evidentemente, per poter venire ricompensata, la confessione dovrebbe essere ancora più ampia. La vicenda è davvero orribile. Non solo perché la custodia cautelare viene disposta esclusivamente per esercitare pressioni sugli indagati e per limitarne il diritto di difesa. Ma perché si ha addirittura la sensazione che alla cosiddetta confessione di Martino ci si affidi pure per sconfiggere i dubbi avanzati dalla Cassazione sulle fumosità, se non sulla inconsistenza, del reato di pitreismo. Non era forse meglio, da parte della magistratura procedente, mostrare maggior rispetto per le garanzie dell’articolo 274? O magari rifarsi all’articolo 275 e, anche tenendo conto della non più giovane età di Carboni, Lombardi e Martino, ricorrere agli arresti domiciliari? Ovviamente con divieto di comunicazione con persone non conviventi e a telefoni rigorosamente intercettati.