Dal sogno italiano alla passione
I problemi del centro-destra non sono quelli che vivacizzano oggi il teatrino buffo della politica: ambizioni individuali e di gruppo, ripicche personali, capovolgimenti di fronte e di idee frascheggiamenti di politicanti in cerca d'autore, ricatti e ricattini e via dicendo. O, meglio, non sono soltanto quelli. Ve ne sono di più importanti. Riguardando il futuro del centro-destra, la sua identità, l'avvenire stesso del paese. Li ha richiamati il direttore Mario Sechi nel suo bellissimo editoriale di ieri presentato sotto forma di appello a Silvio Berlusconi. Non so se il presidente del Consiglio risponderà. Ma credo di sì dal momento che le questioni sollevate toccano un punto nevralgico. Un punto che implica un bilancio critico dell'esperienza belusconiana e, al tempo stesso, una riflessione sul futuro. Il Cavaliere è, certamente, sensibile a entrambi i temi. I quali, poi, a ben vedere, sono strettamente intrecciati. Qualche cenno, anzi, di risposta all'appello, sia pure in maniera implicita, lo ha fatto alla festa di Atreju ammettendo la necessità di una articolazione territoriale del Popolo della libertà e, soprattutto, ricordando ai tanti, entusiasti giovani presenti le «radici», ideologiche e culturali, l'anticomunismo prima di tutto e la difesa del privato, cui si ispirò inizialmente la sua avventura. Quando decise di scendere in politica, Berlusconi incarnò un «sogno italiano»: trasformare un paese ingessato dallo statalismo, impacciato dalla partitocrazia, imbarbarito dall'egemonia culturale della sinistra e pressato dalla minaccia dell'ingresso nella stanza dei bottoni di comunisti o postcomunisti. Questo sogno lo espresse nel progetto di creare un grande «partito liberale di massa». Non ho mai amato l'espressione. Essa è, in fondo, equivoca perché il liberalismo intende esaltare le potenzialità dell'individuo garantendogli l'esercizio di libertà fondamentali e mal si concilia con il concetto stesso di «partito di massa». Tuttavia, al di là dei nominalismi, lo spirito con il quale essa veniva pronunciata intendeva indicare qualcosa di giusto e di condivisibile: la necessità di rendere popolare l'essenza del liberalismo, il liberalismo vero e genuino, che non ha bisogno, per essere tale, di aggettivi - progressista o conservatore - che lo qualifichino. Questo sogno aveva bisogno, per diventare realtà, di energie nuove, giovani, immuni dai vizi e dalle pratiche di una politica fatta di compromessi continui, trattative estenuanti, pratiche spartitorie e senza principi. Aveva bisogno di imporsi in un a società, vecchia e sclerotizzata, sostanzialmente amorale. come un soffio purificatore e vivificatore. Per questo, il progetto piacque agli italiani e piace tuttora. Ed è la base del consenso e della popolarità delle quali gode Berlusconi. Ma soprattutto piacque, e piace, ai giovani e ai giovanissimi. Quelle facce pulite, solari, sorridenti, pensose che si sono viste alla festa di Atreju, e in tante altre occasioni - e che sono così diverse da quelle scure, tristi, problematiche, talora arroganti che si ritrovano nelle manifestazioni del centro-sinistra e della sinistra - costituiscono il vero, autentico, imprescindibile patrimonio umano del Popolo della libertà. Un patrimonio di spontaneità e di generosità davvero impagabile. Un patrimonio destinato ad essere la fucina della nuova classe dirigente. E che sarebbe un delitto sprecare. Certo, gli anni dell'età berlusconiana hanno visto molto di positivo e di innovativo, a cominciare dall'instaurazione del bipolarismo e, quindi, dalla possibilità offerta ai cittadini di scegliere finalmente con il proprio voto, sin dalla fase elettorale, il governo che si preferisce e il programma che si vuole realizzato. Ma queste innovazioni - che potranno e dovranno pur sempre essere migliorate - sono state, e sono, continuamente messe a dura prova dalle resistenze «corporative» che la vecchia società politica, i cosiddetti «poteri forti» e tanti interessi consolidati hanno saputo mettere in essere. Il risultato è che la società autenticamente liberale che era nei vagheggiamenti del «sogno italiano» non è stata ancora costruita. E, anzi, quello che si è realizzato appare a rischio. È necessario, perché questo «sogno italiano» diventi realtà e non si impantani, passare a una seconda fase, alla «svolta» della quale ha parlato Sechi. La svolta non può che ruotare attorno a due cardini: il rinnovamento, anche generazionale, della classe dirigente del Popolo della libertà e una maggiore attenzione alla politica culturale. Il sorriso dei giovani che abbiamo visto riflette la generosità e l'entusiasmo di un mondo che guarda con fiducia al futuro. E che non bisogna deludere, offrendogli concrete opportunità, garantendogli la meritocrazia, coinvolgendolo nel dibattito delle idee. Alla politica culturale si è dato, finora, poco peso: la si è considerata, troppo spesso, se non un superfluo optional della politica, soltanto uno strumento per occupare posti di potere in qualche ente o qualche istituzione. La cultura vera è qualcosa di diverso e più importante. Diceva il grande poeta e critico inglese Matthew Arnold che «la cultura è passione per la dolcezza e la luce e, quel che più conta, passione per farle prevalere». Negli occhi dei giovani del Popolo della libertà questa passione c'è. Insieme alla speranza di realizzare il «sogno italiano».