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Quella terza carica fu un no di Veltroni

Da sinistra Gianfranco Fini e Walter Veltroni (Foto Pizzi)

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Gianfranco Fini potrebbe aiutarci a capire oggi, con il tanto annunciato discorso a Mirabello, quante possibilità abbia davvero questo governo di vivere. E non di sopravvivere logorandosi tra continui incidenti e sgambetti, come hanno lasciato sospettare, o hanno addirittura minacciato esplicitamente, alcuni finiani in questa estate di finte vacanze politiche. Sarebbe, quella del logoramento di un governo voluto con le elezioni del 2008 da una chiara maggioranza degli italiani, la peggiore prospettiva di una legislatura già diventata anomala. Si tratta di un'anomalia derivata da un'altra. Che è quella di un presidente della Camera, lo stesso Fini, disinvoltamente risoltosi a promuovere la nascita di nuovi gruppi parlamentari per ritorsione contro le contestazioni ricevute dalla maggioranza del suo partito. Che si è legittimamente espressa il 29 luglio scorso in un documento dell'Ufficio di Presidenza: un organismo contemplato dallo statuto che il congresso fondativo del Pdl approvò con il consenso anche di Fini. E di tutti gli amici che hanno poi accettato il suo invito a costituirsi in gruppi parlamentari autonomi. Nella storia d'Italia non si trova una Presidenza della Camera atipica come questa. Ne deve onestamente convenire lo stesso Fini. E con lui quelli dell'opposizione che lo difendono dalle presunte aggressioni «squadristiche» dei suoi critici e lo incitano, persino con minacce più o meno velate, a tenere alto lo scontro con Berlusconi e con il governo. Del quale peraltro i finiani continuano a fare parte con un ministro, un vice ministro e alcuni sottosegretari. Quanto poi a Berlusconi, si tratta dello stesso uomo che volle personalmente all'inizio della legislatura l'elezione di Fini a presidente della Camera per rispettare un impegno preso prima delle elezioni con l'allora leader di Alleanza Nazionale in funzione della formazione del Pdl. Il rispetto di quell'impegno costò parecchio, e subito, al presidente del Consiglio. In particolare, e per cominciare, gli costò la perdita di una preziosa occasione di far crescere la pianta di un rapporto costruttivo con l'opposizione. Al quale era disponibile l'allora segretario del Pd Walter Veltroni, svillaneggiato prima e durante la campagna elettorale da molti compagni proprio per l'uscio aperto o socchiuso al Cavaliere sul terreno decisivo delle riforme. Quell'apertura, visti anche i larghi margini assicurati alla maggioranza dai risultati elettorali, avrebbe forse dovuto consigliare a Berlusconi di studiare per Fini un'altra importante funzione e di offrire la presidenza della Camera al maggiore partito d'opposizione. Lo stesso Fini, in verità, avrebbe dovuto anticipare il Cavaliere e suggerirgli un percorso del genere per avviare sui binari giusti una legislatura che anche lui immaginava «costituente». Ma evidentemente sto pensando ad un altro mondo, e non solo ad altri uomini. Non voglio dire che quell'occasione mancata divenne poi la causa scatenante della svolta all'indietro di Veltroni. Che dopo le elezioni si mise ad inseguire Antonio Di Pietro sulla strada del più vecchio e bieco antiberlusconismo, infarcito di insulti e di sostegno alle più cervellotiche campagne o iniziative giudiziarie contro il presidente del Consiglio. Ma se non fu la causa scatenante, probabilmente vi contribuì. Veltroni volle consacrare, diciamo così, la sua svolta all'indietro con la solita manifestazione di piazza convocando e radunando per il 25 ottobre 2008 al Circo Massimo non certamente i due milioni di persone vantati dagli uffici del suo partito, ma alcune centinaia di migliaia sì. Ebbene, al termine di un comiziaccio nel quale aveva arringato la folla gridando che «l'Italia è migliore della destra che la governa», il segretario del Pd ricevette una telefonata di compiacimento anche da Fini. E fu autorizzato a diffonderne la notizia, alla quale vi lascio immaginare l'intima accoglienza di Berlusconi. Che tuttavia fece buon viso a cattivo gioco, come gli sarebbe toccato molte volte ancora sentendo Fini parlare del suo «cesarismo», della riforma della cittadinanza, del voto agli immigrati, dei problemi bioetici, dei magistrati e via distinguendosi o contrapponendosi. Fu dopo un lungo e tortuoso percorso che si arrivò il 22 aprile scorso al botto di una riunione, in verità tardiva, della direzione nazionale del partito. Dove i due se le dissero e diedero, metaforicamente, di santa ragione in diretta televisiva e radiofonica. «Che fai? Mi cacci?», gli gridò Fini puntandogli il dito in faccia. Quella telefonata galeotta del 25 ottobre di due anni fa, ad un Veltroni peraltro destinato al naufragio come segretario del maggiore partito d'opposizione, fu attribuita dai collaboratori di Fini alla volontà di apprezzare l'affollamento e insieme la compostezza di una manifestazione di protesta risoltasi senza disturbare troppo la città. Ma per Roma e i romani, ammesso che potesse essere definito composto il duro discorso di Veltroni contro il presidente del Consiglio, poteva e doveva forse bastare una telefonata di Gianni Alemanno, ancora fresco di elezione a sindaco. È curioso come da un telefono possa in qualche modo partire una valanga politica come quella che ha riservato a Fini la singolare avventura di trasformarsi da co-fondatore del maggiore partito italiano, da possibile successore di Berlusconi alla guida del governo, da carta principale o di riserva della maggioranza di centrodestra alla massima carica dello Stato, quando scadrà il mandato quirinalizio di Giorgio Napolitano, al più anomalo presidente della Camera nella storia del Paese. E all'uomo che fa sognare con offerte di alleanza politica una donna come Rosy Bindi, voluta alla presidenza del Pd da Pier Luigi Bersani: quello che alterna al «politichese» delle lettere le volgarità dei comizi, come la «rompicoglioni» data al ministro Maria Stella Gelmini e la «fogna» affibbiata alla politica, se non addirittura alla persona di Berlusconi. Peccato per Fini, e per la sua parentela monegasca.  

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