«Molto» gli avevo risposto.
«Molto».«Sei mio amico» aveva detto Berlusconi, «non ti prometto niente, ma vedrò che cosa posso fare». Questo comportamento è tipico di Silvio ed è per questo che lo ammiro. Quasi tutti i politici promettono, ma poi non combinano nulla. Lui non aveva promesso, aveva agito. Blair non si ferma a questo aneddoto, ma allarga il campo per spiegare quanto contino le relazioni personali tra i leader nella grande politica mondiale. Ed anche che ruolo giochi il Cavaliere in tutto ciò. «A tutti i livelli, ma soprattutto ai vertici, la politica ruota intorno alle persone» scrive Tony Blair. «Se un leader ti piace cerchi di aiutarlo anche se ciò può andare contro i tuoi interessi. Se non ti piace, non lo aiuti. Se prendi le distanze per motivi politici – per esempio perché, come nel caso di Silvio, c'è più di una controversia sul suo conto – va benissimo, ma non illuderti: a perdere è il tuo Paese. Quel leader non è stupido e sa che non sei disposto a pagare un prezzo per avvicinarti a lui. Credi che non serbi rancore? Non so come abbiano votato gli italiani, però...». Fermiamoci qui, anche se si capisce che Tony Blair sappia in realtà benissimo come sono andate le elezioni in Italia, e come questo rafforzi le sue tesi. Le memorie confermano, da un pulpito parecchio alto, una convinzione già espressa ieri sul Tempo: l'Europa ha retto in questo ventennio tumultuoso, susseguito alla caduta del comunismo, a varie crisi mondiali e all'affermarsi di nuovi equilibri e nuove potenze, grazie a tre leadership, quella di Blair in Gran Bretagna, quella di Vladimir Putin in Russia e quella di Silvio Berlusconi in Italia. Potremmo aggiungere come elemento stabilizzatore anche la Germania: ma in questo caso si tratta di leadership senza leader. E dunque, senza quei rapporti personali, quell'alchimia istintiva tra capi di governo diversi tra loro (e per scala di importanza dei rispettivi Paesi), che alla fine determinano processi strategici grandi e piccoli. Tony Blair ce lo conferma. Da laburista, anzi da fondatore del New Labour che in Italia si sarebbe cercato di imitare con l'Ulivo, non andò quasi mai d'accordo con l'establishment della sinistra mondiale. Neppure con Romano Prodi, del quale ricorda una frase: «Ehi Tony, stai insultando il mio Paese». Al contrario si trovò benissimo con i conservatori. A cominciare da George W. Bush, che definisce «un autentico idealista». È significativo che non abbia corretto questo giudizio dopo il declino del presidente repubblicano, così come non ha rinnegato l'alleanza con gli Usa nella guerra al terrorismo dopo l'11 settembre: nonostante che i risultati sul campo abbiano contribuito non poco a fargli perdere Downing Street. Tony Blair ricorda l'amicizia stretta con George e Laura Bush subito dopo l'attentato alle Torri Gemelle, ed ancora il legame personale con Putin, conosciuto a Firenze nella residenza della famiglia Strozzi: «Avevamo la stessa età e lo stesso modo di vedere le cose». Certamente le memorie di Blair faranno notizia in Gran Bretagna per i giudizi sferzanti, politici e umani, sul successore, ex amico e collega di governo e partito Gordon Brown. Ma a livello di politica mondiale la lezione da trarne riguarda appunto la rilevanza, anche strategica, dei rapporti personali tra leader. A cominciare dalla spontaneità e dalla sincerità, che a quanto pare viene prima dell'opportunismo politico; con ciò smentendo anche un altro luogo comune sulla realpolitik come motore di tutto. Non è la sola vittima delle memorie di Tony Blair. L'intero castello del politically correct, tanto caro all'intellighentsia nostrana specie in politica estera, ne esce distrutto. Ne esce al contrario benissimo quella che Berlusconi chiama «la politica del cucù»: l'amicizia al di là delle ideologie. Chi è convinto che la politica estera sia frutto principalmente di buone maniere, apparenze, lavoro di diplomazia e di feluche, protocolli e trattati, avrà di che meditare. Quelle cose contano, certo, ma non sono la sostanza: sono solo la forma. Ed è abbastanza significativo che a ricordarcelo sia proprio uno dei due premier inglesi che hanno modificato il corso della storia (l'altro è Margaret Thatcher), guide di un Paese considerato a lungo la culla del cinismo nelle relazioni internazionali. Ripetiamo. Se ci riflettiamo bene, sono altre relazioni, quelle umane, ad avere teso in questi due decenni intorno al mondo una gigantesca ragnatela che ci ha salvati da guai peggiori: terrorismo, crisi economiche, rischio di conflitti di civiltà. Non sono stati l'Onu, né la Nato né l'Unione europea. In fondo, la strategia delle alleanze «pick up», con chi ci sta, messa in campo da Bush dopo l'11 settembre conteneva proprio questa intuizione: le vecchie istituzioni andavano bene per il vecchio mondo, quello della Guerra Fredda. In un mondo diverso, senza più i due grandi arsenali atomici ed i due blocchi ideologici contrapposti, sostituiti da tanti sparsi e incontrollati (e potenzialmente più pericolosi) focolai di tensione politica, militare ed economica, occorreva ideare qualcosa di diverso. Quel qualcosa erano – e sono - le leadership; ovvero la stabilità e la durata di grandi cicli politici. Che a loro volta presupponevano, e presuppongono, le idee anteposte alle ideologie, e la coerenza di comportamenti reciproci dei rispettivi leader. «La politica ruota attorno alle persone» scrive Tony Blair: difficile trovare parole migliori.