Gheddafi vale oro per l'Italia
Quanto vale per noi la Libia? E come si valutano i rapporti con Muammar Gheddafi? La risposta alla prima domanda è: molto oggi – circa 3 miliardi di dollari, in aumento del 300 per cento in un decennio – e moltissimo in futuro, considerando che solo l’Eni ha annunciato investimenti per 25 miliardi di dollari. In totale, si può ipotizzare una posta di almeno 40 miliardi nei prossimi anni. Quanto alla domanda numero due, è molto semplice: sbagliato, inutile, per non dire infantile o addirittura fasullo, soffermarsi sulle bizzarrie del Colonnello, sui destrieri berberi che si porta dietro e sulle hostess che vorrebbe convertire all’Islam. E non per il principio banale, ma sempre valido per tutte le democrazie del mondo, del “pecunia non olet”, quanto perché quei segnali non sono rivolti all’Italia o all’Occidente ma all’Africa e all’Islam emergente in generale. Insomma, non corriamo il rischio di una crociata maomettana, né di attentati al nostro senso del pudore, che peraltro è saldamente presidiato da internet e dalla strategia dell’accoglienza per i rom e quant’altro giunga dall’Est “ariano”. Così, a torto o ragione, non ha senso porre con Gheddafi il problema dei diritti civili: non lo ha, almeno, se Barack Obama o Angela Merkel non lo pongono alla Cina, che detiene un terzo del debito americano e sta diventando il mercato d’Oriente della Germania. Ciò che i commenti scandalizzati di sinistra, radicali perfino “finiani”, e quelli assai più interessati del Financial Times e del Wall Street Journal, non dicono è come siano mutati negli ultimi tempi i rapporti economici fra la Libia, l’Italia e l’Unione europea. Tradizionale appannaggio dei francesi – e fuori Europa dei giapponesi, che negli anni Ottanta hanno costruito porto e infrastrutture di Tripoli – oggi la metà dell’interscambio europeo con la Libia riguarda l’Italia, che precede Francia, Germania e Spagna. Il tutto per un paese il cui Pil dipende per il 54 per cento da petrolio e gas naturale, e la cui ricchezza cresce stabilmente tra il 5 e il 10 per cento. Ma che soprattutto ha necessità di infrastrutture e di fatto non si è ancora aperto al mercato ed ai consumi. In altri termini, scandalizzarsi oggi per l’accoglienza a Gheddafi è come se nel pieno della Guerra Fredda si fosse censurata l’apertura della fabbrica Fiat a Togliattigrad, se dopo l’11 settembre avessimo messo in discussione i rapporti con la Turchia, o se semplicemente in qualsiasi momento della storia qualcuno avesse intimato alle multinazionali americane, petrolifere e non, di non fare affari con i sauditi. Quanto alla Libia, era il 1976 quando la Lafico, la banca d’affari del regime, entrò nel capitale Fiat con il 9 per cento, portando successivamente l’investimento fino al 15: eppure, allora, Tripoli era considerato dall’Occidente e dagli Usa una sorta di stato canaglia, con legami con il terrorismo mondiale. Perché si alza il sopracciglio proprio ora che il Colonnello ha rinunciato a bombe e kalashnikov a favore del business? La riposta è anche stavolta implicita nella domanda: per motivi di affari. La Libia di Gheddafi prima maniera non interessava quasi a nessuno se non alla Cia e all’MI 6 inglese; ed infatti Ronald Reagan fece bombardare Tripoli: non siamo certi che Obama lo imiterebbe. Per l’Italia – con l’eccezione di Eni, Fiat e qualche coop emiliana – la Libia fu una rogna costante contro la quale si scornarono Andreotti e Craxi. Silvio Berlusconi, accettando il folclore del Colonnello, l’ha trasformata in una opportunità di primo livello. La tradizionale dipendenza per il gas dallo “scatolone di sabbia” è divenuta un’occasione di investimento reciproco non solo per l’Eni, ma per aziende che spaziano dalla Finmeccanica alla Fincantieri, dall’Impregilo all’Unicredit, fino alla Juventus. Imprese esclusivamente italiane realizzeranno i 1.700 kilometri di autostrada costiera, finanziata dal nostro governo con cinque miliardi in un ventennio: tre milioni a kilometro, che qualcuno da noi giudica “eccessivamente basso”, e quindi sospetto, se rapportato, per esempio, all’adeguamento della Salermo-Reggio Calabria, che costa sei volte tanto. E allora? Se invece non fossero troppo alti i costi da noi, e proprio questo non provocasse il blocco delle infrastrutture e degli investimenti pubblici? Qualcun altro ha naturalmente scoperto che Colonnello e Cavaliere sono soci nella tv, e questa sarebbe la chiave di tutto: la Lafico ha nientemeno del 10 per cento di una casa di produzione dell’immancabile Tarak Ben Ammar, nella quale ha una quota anche la Fininvest. Si attendono relativi dossier. Insomma, cambia la geografia economica del mondo, ma non cambia la testa di chi si occupa di Berlusconi. Eppure basterebbe guardare a come il Cavaliere ha ri-orientato i business strategici dell’Italia. Russia, Turchia, Libia, Venezuela, Brasile, Panama (e speriamo anche Cina) stanno sostituendo le tradizionali partnership con gli Usa e con la Germania. Certo, l’Occidente resta il nostro primo mercato, ed è lì che si realizza il valore aggiunto. La produzione e gli accordi di lunga gittata si fanno però altrove: anche con regimi e personaggi discutibili, ma che garantiscono stabilità politica e flussi certi d’investimenti. Del convoglio “atlantico” eravamo un vagoncino di coda; qui possiamo essere una motrice. Logico che Usa, Francia, Germania e Inghilterra non gradiscano, come ha detto in una memorabile intervista il nuovo ambasciatore obamiano David Thorne. Del resto, dalle colonie all’Iraq i nostri partner sono molto più avanti di noi.