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Modello inglese miraggio italiano

Lo stadio Emirates di Londra

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Modello inglese: facile a dirsi, ma difficile da realizzare per un calcio, quello di casa nostra, lontano anni luce dal «modello» anglosassone. Il problema non è tanto legato a quello che succede in campo. Ma a tutto ciò che ruota attorno a un fenomeno di massa divenuto sempre più business. Il famoso «modello inglese» non è divenuto tale dal giorno alla notte, ma a seguito di un lungo processo di trasformazione. Innanzitutto è radicalmente diverso l'atteggiamento del popolo inglese rispetto a quello italiano in fatto di rispetto delle regole, disciplina e sportività. Premessa d'obbligo parlando di un luogo dove migliaia di persone di ritrovano assieme per un evento sportivo. Immaginate uno stadio italiano senza barriere divisorie tra pubblico e prato: sarebbe un'invasione continua. Lì invece c'è il rispetto di questa regola elementare rafforzato dal fatto che tutti o quasi gli impianti inglesi hanno nel sottosuolo un luogo dedicato alle «celle»: dove se sgarri resti qualche ora, per non dire qualche giorno, prima di passare alla prigione quella vera. Insomma rispetto delle regole forzato, chi sbaglia paga e chi non rispetta gli steward infrange una regola basilare: provate a dirlo ai poveretti che lo fanno, e non di mestiere, in Italia.   Il modello inglese funziona poi grazie a un passaggio chiave: lo stadio di proprietà, mentre in Italia la legge sugli stadi s'è incagliata chissà dove. Tutte le squadre che giocano nella Premier League (l'equivalente della nostra serie A), hanno uno stadio di proprietà: il che vuol dire non solo rinforzare economicamente i club, ma anche aumentare le responsabilità degli stessi. Sono infatti affidati ai club la sorveglianza e i sistemi di sicurezza all'interno dell'impianto che deve, rigorosamente, rispettare le regole imposte dalla federazione. Almeno ventimila posti a sedere, aeree dedicate allo svago, alla ristorazione, con box privati e telecamere a circuito chiuso. Quindi il divieto per le società di intrattenere rapporti con i propri tifosi (se non per prevenire incidenti). E mille altre attenzioni, dagli agenti infiltrati nelle tifoserie, alla «Crimistopper»: un gruppo speciale che in dieci anni ha consentito la cattura di oltre 15.000 hooligans. Premure alle quali sono seguite regole ferree: nel 1985 il divieto di introdurre alcoolici negli stadi, nell'86 il comportamento pericoloso (anche non violento) in uno stadio è divenuto reato, fino al 1991 anno dal quale la polizia può arrestare e processare per direttissima i tifosi anche solo per violenza verbale. Insomma, un giro di vite iniziato oltre vent'anni fa e che adesso è un vero e proprio sistema. In Italia? Beh, per adesso siamo solo all'inizio... la strada è ancora lunga e iniziare dalla legge sugli stadi di proprietà non sarebbe male.

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