Walter l'Alieno

Veltroni scrive «al Paese». Suonerà vagamente sudamericano ma Walter non si è posto il problema. Peccato piuttosto che la parola «Popolo» non era utilizzabile. Berlusconi l'ha «rapita» dal vocabolario della Sinistra e ci ha costruito un partito. Dunque Walter si rivolge, più semplicemente, al Paese. In fondo il risultato emotivo è lo stesso. Lo fa sul Corriere della Sera, in una lunga lettera in cui boccia le ammucchiate contro Berlusconi. Ma in cui rompe, per lo stesso motivo, quel che restava dell'asse con Dario Franceschini, il suo storico vice quando era al timone del Pd. Al contempo critica neanche troppo velatamente Antonio Di Pietro e i suoi eventuali «patti col diavolo» per battere Silvio. L'inizio della lettera sembra scritto a bordo del Titanic: «Scrivo agli italiani che tornano a casa, a quelli che non si sono mossi perché lavorano o perché non possono lavorare. Scrivo agli imprenditori che fanno e rifanno i conti della loro azienda chiedendosi perché metà del loro lavoro di un anno debba andare a finanziare uno Stato che non riesce a finire da sempre la costruzione di un'austostrada come la Salerno-Reggio Calabria o che alimenta autentici colossi del malaffare come quelli emersi in questi mesi». Ancora: «Scrivo ai lavoratori che sentono che si è aperto un tempo nuovo e difficile», «scrivo ai nuovi poveri italiani, i ragazzi precari, che arrivano a metà della vita senza uno straccio di certezza, senza un euro per la pensione, senza un lavoro sicuro, senza una casa, senza la sicurezza di poter mettere al mondo dei figli. E senza che politica e sindacati si occupino di loro». Insomma, aveva avvertito tutti nella prima riga: «Scrivo al mio Paese». Del resto, Veltroni è convinto di avere «un minimo di titolo per farlo». Perché ha ottenuto il consenso più alto della storia del riformismo italiano (quel 34% alle ultime Politiche dopo una brevissima ma intensa campagna elettorale) e poi perché «dopo alcuni mesi io mi feci da parte» (in effetti nel Pd, come anche a destra, è roba da miracolo). Eppure nel sillogismo di Walter qualcosa non funziona. Innanzitutto perché l'allora segretario del Pd non si è semplicemente ritirato in seconda fila. No. Ha mollato il partito di colpo sotto il peso delle tensioni quando invece doveva andare al congresso, forte di un risultato straordinario, e incassare di nuovo la fiducia che in quel momento sarebbe stata scontata. Ma niente. Veltroni ha mollato e il Pd è rimasto ostaggio dei veti incrociati tra le varie correnti. Adesso torna in campo con i toni un po' da padre della patria un po' da marziano che ci si chiede dove sia stato negli ultimi vent'anni e se non ritenga, in fondo, di avere qualche responsabilità anche lui nello sfascio del Paese. Nella sua lettera al Corriere c'è amarezza. È come se Veltroni volesse tornare a dettare la linea ma si rendesse conto di avere avuto già la sua occasione. E dunque dovesse assistere impotente allo tsunami che ha colpito il Pd, che sembra davvero scomparso, oscurato dalla battaglia dei finiani contro il Pdl. In ogni caso Veltroni non lesina scenari emozionanti. Innanzitutto dice no alle «sante alleanze» contro il premier Berlusconi. «Rimango dell'idea che le uniche alleanze credibili, prima e dopo le elezioni, siano quelle fondate sulla reale convergenza programmatica e politica. In fondo il repentino declino del centrodestra conferma proprio questo». Secondo ill deputato del Pd «è giusto semmai che, in caso di crisi di governo, si cerchino soluzioni capaci di fronteggiare per un breve periodo l'emergenza finanziaria e sociale e di riformare la legge elettorale dando forma, per esempio, attraverso i collegi uninominali e le primarie per legge, a un moderno e maturo bipolarismo». Questa, sottolinea, è «la più folle e orrenda estate politica» che si ricordi e tutto «senza una parola di autocritica. Chi ha vinto le elezioni e ne provoca altre neanche a metà della legislatura vorrà almeno dichiarare il proprio fallimento politico?».   La strada per «i veri democratici» è «quella di una repubblica forte e decidente» che «comporta profonde e coraggiose innovazioni, nei regolamenti delle Camere, nell'equilibrio dei poteri tra governo e Parlamento, nelle leggi elettorali, nella riduzione dell'abnorme peso della politica, nella soppressione di istituzioni non essenziali». L'Italia, rimarca l'ex leader del Pd, è «un paese fermo, che ha bisogno di correre. Che ha bisogno di politica alta, ispirata ai bisogni della nazione. Non è retorica. Parri, De Gasperi, Moro, Ciampi, Prodi e altri hanno dimostrato che si può stare a palazzo Chigi per servire gli italiani. Bene o male, ma servire gli italiani. Non se stessi. Spero che si concluda rapidamente l'era Berlusconi». Così «in Italia potremo finalmente avere un vero bipolarismo, schieramenti fondati sulla comunanza dei valori e dei progetti, capaci di riconoscersi e legittimarsi reciprocamente in un Paese con una politica più lieve e perciò più veloce ed efficiente nella capacità di decisione del suo sistema democratico». L'epilogo è struggente: «Il nostro - conclude Walter - è un meraviglioso Paese. Amare l'Italia e gli italiani dovrebbe essere una precondizione per partecipare alla vita politica. Per questo il nostro Paese merita di più. Merita di più dei dossier e dei veleni. Di più della politica ridotta a interesse di un leader. Di più delle alleanze con il diavolo. Il nostro Paese deve smettere di vivere dominato solo da passioni tristi. È difficile. È possibile». Il Pd, con rare eccezioni, plaude alla lettera del leader tornato sul Pianeta Terra. Ma domani è un altro giorno: il Pd troverà nuova materia su cui spaccarsi.