Il distacco a spillo del Pdl
La guerra tra finiani e Pdl, tra ribelli e lealisti, tra terzisti e destristi, s'arricchisce giorno dopo giorno. Ormai siamo alla collisione dei due mondi. E mentre il Palazzo parla un linguaggio che il popolo fatica a capire e rifiuta e s'affolla il dibattito pubblico di governi tecnici, di transizione, balneari e di fine stagione, ecco spuntare un argomento vero, un tema da linguaggio pop, comprensibile a tutti e dai significati ultimi, definitivi, senza appello, storici: il tacco a spillo. Infuria la battaglia a borsettate tra finiane e berlusconiane, tra pensose intellettuali da Camera e le amazzoni-ministre del Cavaliere. Dopo la Tullianeide, l'appartamento a Montecarlo con il cognato in affitto, il patrimonio in saldo di An, ecco emergere in questa indimenticabile estate italiana il «distacco a spillo nel Pdl», la secessione della scarpa e della minigonna. Qui le uniche convergenze parallele che risaltano sono quelle delle gambe lunghe e ben tornite, decisamente migliori di quelle di un Forlani da Prima Repubblica. Il primo colpo di tacco l'ha tirato la neofiniana Barbara Contini che in realtà agitava una clava («quanto a quelle che fanno carriere su tacchi a spillo e armate di minigonne dico: mi dispiace per la gente, per gli elettori, per chi avrebbe voluto rappresentanti competenti e all'altezza») e per soprammercato tirava una botta storica pure al mito di Mary Quant, al simbolo della liberazione sessuale, del progressismo in corto e della vita da bohème che dovrebbe ispirare i Futurgenerazionisti che alimentano il pensatoio di Fini. É scoppiato un casino ed è la prova che la politica è costume, è spesso scostumata e non si sbaglia quasi mai a osservarla come lo specchio fedele di un Paese. L'argomento non è da prendere sottogamba (battuta involontaria) e dice molto di più di quanto si immagini. Non è un problema di calzature né di calze, di tomaia o suola. Qui siamo di fronte a una voragine, un abisso culturale che non si può ricomporre apparecchiando un tavolo e servendo un vertice di partito. Aveva iniziato la testarossa finiana, la politologa Sofia Ventura attaccando le veline del Cavaliere e da quel momento in poi la metafora del corpo - e ora degli oggetti - delle donne è diventata politica, forse migliore di quella politicante che ci tocca commentare in questi giorni. Almeno comprensibile e tangibile nella vita di tutti i giorni. Che metamorfosi. Le donne finiane hanno mutuato dalla sinistra il difetto di sentirsi non solo sempre nel giusto, non solo più colte e pensose, più impegnate, ma si sono tautuate senza chiedersi perché lo stemma di famiglia dell'essere antropologicamente superiore. Le ragazze hanno il segno tribale sulla caviglia, appena sopra il bracialetto, loro mostrano tronfie il sigillo del benpensatismo sulla fronte, appena sopra gli occhialini gramsciani. Non andranno lontano perché in realtà sono regrissiste, sognano un modello di donna elitario, aristocratico, con la erre moscia, noioso, senza erotismo, svuotato dell'edonismo necessario per essere vive e palpitanti. Di loro, il buon Ernest Hemingway non avrebbe mai scritto le parole indimenticabili che dedicò a Brett, la protagonista di "Fiesta": «Era costruita con curve come lo scafo di uno yacht da corsa», perché anche in presenza di uno scafo a posto e tirato a lucido, la fantasia si spegne immediatamente di fronte a un gadlerneriano polpettone televisivo «sul corpo delle donne». Siamo di fronte a un grigio femminismo retrò, il primo piatto rancido di un menù stagionato che non ha niente a che fare con quel che viviamo, con ciò che non siamo e ciò che non vogliamo. I tartufoni del Belpaese saliranno in cattedra, diranno che anche questo è uno scadimento della nostra politica, alzeranno il ditino e spiegheranno al volgo che «all'estero questo non accade». Sbagliato. Nel Minnesota i repubblicani hanno appena messo online un video dove le donne del partito sono da capogiro e quelle democratiche racchie irrecuperabili; in Francia la Rachida e Carlà si sono contese un uomo, Nicolas Sarkozy, a colpi di gonna, gamba, corsetto e cervello da risiko; in Inghilterra le mogli e le amanti fanno e disfano le fortune della politica e l'icona di bellezza nobile di Lady Diana è sempre accesa come il suo sorriso. Noi abbiamo la Contini che casca nel sillogismo bella uguale ignorante che è un'offesa volgare per le donne. A Berlusconi si possono muovere critiche tutt'altro che tenui sul tema, ma gli va dato atto che in maniera casuale, arruffata, da Cavaliere errante e amante impenitente, ha allargato la platea del Parlamento a donne che sono il canone inverso rispetto a quello politicamente corretto, ma denso di ipocrisie sinistre e inconfessabili convenienze maschili. Sostenere che le ministre non sono degne di esser al loro posto perché sono carine è un oltraggio, un discorso da osteria a notte fonda, non un ragionamento politico. La bellezza non è un peccato originale, come la bruttezza non è un sinonimo certo di intelligenza e impegno. Se questi sono gli argomenti della piattaforma politica dei finiani, stiamo freschi. Banalità sparse al vento, un ventaglio di sconcezze culturali mutuate dal peggio della sociologia trinariciuta di sinistra. Perderanno anche per questo. La scissione è inevitabile anche per questo. Ultima nota: se questo è il metro di giudizio della Contini, se questo è il distillato di cultura al femminile che emerge da Futuro e Libertà, se le veline e le pupe sono automaticamente un gradino sotto le aristocratiche ninfe elette tra i finiani, al posto di Elisabetta Tulliani, compagna di Gianfranco Fini, avrei la tentazione irrefrenabile di fare le valigie.