Ma il coraggio non è chiarezza
C’è una tigre nel Palazzo e non è Gianfranco Fini ma la sua compagna, Elisabetta Tulliani. Tanto la difesa di Gianfry era debole e priva di mordente, quanto quella di Ely se non puntuale e provata nei fatti, almeno ha quel che si dice "carattere". Non otto punti deboli, ma una nota secca e via. Poco? Molto? Niente? I fatti rotolano velocemente e presto diranno se lei ha torto o ragione, ma dopo la sortita di ieri, sappiamo che in casa Fini i pantaloni li porta lei. Ma attenzione: coraggio non vuol dire chiarezza. Come dice saggiamente Laura Della Pasqua nel suo articolo su Elisabetta, da un uomo io mi sarei aspettato almeno la difesa appassionata della sua donna. Ma non è arrivata. Non so come si divideranno i torti e le ragioni in questa storia d’amore e potere, ma qui il non detto ha più valore del detto, i silenzi parlano più del vociare e le assenze pesano ben più delle presenze, quelle istituzionali comprese. Paradossalmente, a questo punto della storia, il vero avversario di Berlusconi non è Fini, ma la Tulliani. Perché è dalla sua difesa e capacità di offesa che tutto dipende. Abbiamo visto leader politici trascinati nella polvere e salvati sempre dalle donne. Prendete Bill Clinton, buon presidente degli Stati Uniti, ottimo suonatore di sax, con un debole per le stagiste. Fu messo nei guai da una ragazzina e da quei guai fu tirato fuori da una signora al titanio, Hillary Rodham Clinton, la moglie. Politicamente Fini si salva se Elisabetta dimostra - carte e fatti alla mano - che la trama e l'ordito di questa storia non le appartengono. Ma c'è un punto debole: la casa di Montecarlo e il cognato in affitto. È qui che la vicenda sprofonda in un buco nero. Pensare che il povero senatore di An Francesco Pontone abbia fatto tutto da solo fa ridere. Pontone non muoveva foglia se Fini non faceva almeno un cenno del capo. E cedere la casa ereditata dalla contessa Colleoni a una società con sede in una paradiso fiscale nei Caraibi non era uno scherzo contabile e fiscale che poteva passare soltanto sotto gli occhi dell'onesto parlamentare napoletano. Elisabetta parla, racconta la sua verità e vedremo se regge o meno. L'uomo invisibile, Giancarlo Tulliani, ha fatto perdere le sue tracce. Ha lavato la Ferrari 458 Italia, girato la chiave e...vrooom! Tullianino parla solo attraverso messaggi in codice e sedute spiritiche di stampo giornalistico, ma la sua versione ufficiale non c'è, non esiste. Latita. Sollecitato da tutti i giornali a dare spiegazioni e far svanire le pesanti ombre che s'addensano sulla sua presenza nell'alloggio monegasco, è piombato in un silenzio che per Fini sta diventando infernale. Anche su questo punto Gianfranco è stato insufficiente: avrebbe dovuto sollecitare e favorire subito il chiarimento. Invece ha imbastito una difesa basata sul silenzio e sull'attesa, sulla non celata speranza che il calendario e la clessidra gli diano una mano, che qualche scivolone nell'inchiesta lo favorisca, che l'oblio faccia il suo lavoro e lo aiuti a orchestrare una risposta che sta in piedi. Sono cose che (forse) funzionano in un tribunale, ma le soluzioni da azzeccagarbugli in politica hanno il fiato corto. E i giornali continueranno a scrivere di questa storia finché ci saranno notizie. Il mercato editoriale, la concorrenza tra i giornali, sono il più efficace antidoto contro qualunque tentativo di bavaglio. Tutta la vicenda si svolge non in uno scenario giudiziario, ma politico. È questo il punto debole di Fini, il suo tallone d'Achille, la vera falla presente nella diga di silenzio che ha eretto da quando è scoppiato l'affaire. Quando Fini dice «non si attacca un'istituzione» mostra una falla enorme nella sua difesa. E vediamo perché: 1. confonde l'istituzione con la persona; 2. anche Berlusconi è un'istituzione - è presidente del Consiglio, quarta carica dello Stato - ma su di lui le campagne giornalistiche infuriano da sedici anni; 3. in qualsiasi Paese occidentale dove la stampa è libera - e in Italia lo è - chi ha il potere è sottoposto alle critiche (non solo agli elogi) dei mass media. Lui e il suo gruppo, i cosiddetti «finiani», hanno aperto una voragine all'interno del Pdl e minato la prosecuzione della legislatura. Se si va al voto - e questo resta lo scenario più probabile - l'opinione pubblica del Belpaese andrà a votare tenendo bene in mente lo strappo di Gianfranco con la tradizione della destra, la sua battaglia sulla legalità e la storia del cognato in affitto a Montecarlo. Nel suo caso, tutto il resto non conta niente.