Fini e la cabala del numero 5

Gianfranco Fini sembra attratto, vedremo se più o meno fatalmente, dal numero 5. Al 5 per cento della Camera, per esempio, è risultato corrispondere il gruppo autonomo che egli, pur essendo il presidente dell'Assemblea e dovendosi perciò considerare super partes, ha voluto costituire dopo la rottura con Silvio Berlusconi. Che non è certamente avvenuta all'improvviso, ma al termine di una lunga e ostinata azione di contrasto, diciamo così, condotta dal presidente della Camera. E cominciata già prima del congresso fondativo del Pdl, quando Forza Italia e Alleanza Nazionale avevano prenotato l'unificazione presentando liste comuni alle elezioni politiche del 2008 e realizzando gruppi altrettanto comuni nel nuovo Parlamento. Il 5 per cento della Camera, in verità, non si è ripetuto a Palazzo Madama, dove i dieci senatori accorsi al richiamo di Fini sotto la sigla Fli costituiscono meno del 4 per cento dell'Assemblea. Ma i finiani sperano di allargarsi puntando, fra l'altro, sul soccorso del presidente della Commissione Antimafia Giuseppe Pisanu, rimasto sinora nel gruppo del Pdl ma espostosi con parole di comprensione e condivisione per il presidente della Camera. Al 5 per cento ammonta il credito elettorale attribuito ai finiani dal sondaggista Nicola Piepoli, anche a costo di fare drizzare i pochi, anzi i pochissimi capelli a quello «sfigato» di Pier Luigi Bersani. Al cui partito, il Pd, già indebolito dalla concorrenza dello scomodo alleato Antonio Di Pietro sul fronte del giustizialismo, sembra che Fini possa sottrarre tre dei cinque punti che gli sono stati vaticinati. A conti fatti, quindi, Berlusconi avrebbe più da guadagnare che da rimettere se alle prossime elezioni trovasse Fini tra i concorrenti e gli avversari, visto che le distanze fra i due maggiori partiti, il Pdl e il Pd, aumenterebbe a proprio favore. Il 5 per cento è la parte che il presidente del gruppo finiano della Camera, Italo Bocchino, si è affrettato a dichiarare di non condividere del programma che Berlusconi ha annunciato di voler esporre il mese prossimo al Parlamento per verificare, con un dibattito e un voto di fiducia, quanto "congrua" sia la maggioranza di centrodestra. E se valga o no la pena di tentare la prosecuzione della legislatura sino al naturale epilogo del 2013. O se valga o no la pena, invece, di anticipare i tempi di una crisi per far valutare dal capo dello Stato, che ne ha e ne rivendica spesso la competenza costituzionale, l'opportunità o meno di restituire subito la parola agli elettori. Con l'aria di volersi pregustare un rifiuto del presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, e il conseguente tentativo di allestire in caso di crisi un governo di decantazione o di altro nome, il costituzionalista Andrea Manzella ha scritto l'altro ieri sulla Repubblica che «i cimiteri parlamentari sono pieni di governi che si ritenevano insostituibili o inamovibili». Ma mi permetto, senza il titolo di professore, solo con i ricordi di un giornalista purtroppo di lungo corso, che i cimiteri elettorali sono anch'essi pieni di Camere sciolte anzitempo per l'impossibilità di portare a termine regolarmente il loro mandato. Sono riuscito a contare ben otto elezioni anticipate negli ultimi 38 anni di storia repubblicana, svoltesi cioè con un intervallo minore dei regolari cinque anni rispetto al turno precedente. Segnalo, in particolare, le elezioni anticipate del 1972, del 1976, del 1979, del 1983, del 1987, del 1994, del 1996 e del 2008. Sbaglio, amico Manzella, o no? Si è dovuto arrendere, d'altronde, alle elezioni anticipate lo stesso Napolitano, ricorrendovi due anni e mezzo fa, dopo la caduta dell'ultimo governo di Romano Prodi e l'inutile tentativo affidato all'allora presidente del Senato Franco Marini di allestire un'altra maggioranza o combinazione ministeriale per la sopravvivenza della legislatura. Sono 5 anche i punti del programma messi a punto dal presidente del Consiglio per la verifica parlamentare di settembre. Dovevano essere quattro, in verità, ma Ignazio La Russa, uno dei tre coordinatori del Pdl e ministro ex An della Difesa, è riuscito a fare aggiungere il tema della sicurezza a quelli dell'economia, della giustizia, del sud e del federalismo: forse allo scopo - dicono i maligni - di mettere di più alla prova gli ex colleghi di partito, già spiazzati e sfiancati dalle posizioni non proprio di destra maturate da Fini in materia di immigrazione. Che confina molto con la sicurezza, se non lo ingloba. Sarei curioso di sapere se il numero 5 entrò a suo tempo anche nella combinazione vincente della famosa giocata al lotto della convivente di Fini: quella che si vorrebbe all'origine, con l'aiuto del suo allora compagno Luciano Gaucci, delle fortune del clan familiare di Elisabetta Tulliani. In tal caso il presidente della Camera potrebbe trovare la circostanza incoraggiante sul piano esoterico anche per la sua svolta politica. Ma gli consiglio di non dimenticare che il 5 è un numero ancora più magico per Berlusconi, avendone segnato con l'omonimo canale televisivo la straordinaria fortuna di editore, con tutto quello che n'è seguito.