Solitario anticipatore della Grande Riforma
Il modo migliore per preservare la Repubblica? Cambiarla. Sempre paradossale, il Picconatore, ma il suo messaggio istituzionale rappresenta la rivoluzione incompiuta. Incompiuta, perché incompresa: i tempi della sua presidenza non erano maturi, anche se la prima commissione parlamentare per le riforme, presieduta da Bozzi – da non confondere con Bossi; tanto liberale il primo, quanto leghista il secondo –, risale al novembre del 1983. Cossiga sarebbe salito al Quirinale un paio d'anni dopo. Dunque, degli undici capi di Stato, Francesco Cossiga è l'unico di cui gli storici potranno dire che fosse un conservatore autentico. Prima e meglio degli altri, infatti, aveva capito che, per salvare l'istituzione vetusta e recintata che lui voleva salvare, bisognava rinnovarla e spalancarla a destra e a manca. Precursore della grande riforma con gli scritti e con gli atti, quell'anomalo democristiano non faceva che riproporre una certa idea dell'Italia, senza più archi costituzionali per nessuno. Qualcosa di inedito e prorompente per gli equilibri politici dell'epoca. Troppi decenni erano passati dalla fine della guerra per poter ancora escludere dal governo i comunisti, che comunisti non erano più da un pezzo. E per non «far uscire dal ghetto» i missini, che fascisti non erano più neanche all'anagrafe: Gianfranco Fini, «sdoganato» a livello istituzionale proprio da Cossiga, era il simbolo della nuova generazione di destra. Ma questa idea di patria aperta e condivisa, partiva – ecco l'attento conservatore – dal primo articolo della Costituzione in vigore. Un principio che il Picconatore, e pur demolitore, considerava a fondamento della grande riforma, perché associa la sovranità al popolo. Lo ricorda persino nelle ultime righe delle ultime lettere che ha inviato ai massimi vertici dello Stato. Invece, a forza di chiusure e di cooptazioni, la prima Repubblica era diventata il regno della partitocrazia. E per un irregolare come lui, il Partito non poteva fare le veci dello Stato. Irregolare, quest'uomo, anche nella coerente fedeltà, se si pensa che, in mezzo a un esercito di voltagabbana, per tutta la vita Cossiga è stato sempre e soltanto un democristiano. Quale Stato il presidente avesse in mente, l'ha scritto e descritto molte volte. Eppure, mai ha scelto di venerare un modello straniero chiavi in mano. Anche per cultura personale il presidente amava, si sa, il mondo anglosassone. Però non faceva il riformista coi paraocchi, cioè non si schierava all'ultimo duello nelle patetiche contese tra sostenitori della legge elettorale uninominale oppure del meccanismo proporzionale. Nelle pantomime tra seguaci del presidenzialismo o del parlamentarismo. Nelle sfilate tra novelli indossatori della moda federalista o interpreti dell'antica ed elegante sartoria tricolore. Qualcuno dirà che la seconda Repubblica è frutto della visione istituzionale del Picconatore. Altri affermeranno che, in verità, di sogno infranto si tratti: non possono bastare le elezioni dirette di sindaci e presidenti di regione, pomposamente chiamati governatori, per dare corpo a quella partecipazione dei cittadini da protagonisti, secondo i progetti innovatori dell'appena scomparso presidente. Il disegno della grande riforma ha ormai trent'anni o quasi di storia mancata alle spalle, e prima o poi arriverà una legislatura costituente in grado di realizzarlo. Quando, non si sa, tanto meno chi ne sarà – o saranno – i propugnatori. Ma Francesco Cossiga, il presidente della Repubblica che scosse la prima Repubblica, ne sarà stato il lontano, solitario anticipatore.