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Quel formidabile battutista tra Cicerone e Jovanotti

Cossiga

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C'era una sorta di illuminazione ciceroniana, nel più elegiaco dei suoi aforismi: «Alla mia veneranda età accade di dover essere alle prese con i medici. Ma la malattia finisce per essere una cosa bellissima, quando aiuta ad allontanare la tentazione della politica». Nel corso della sua formidabile carriera di battutista, Cossiga aveva saputo toccare tutte le corde della comunicazione rapida, con un'efficacia a volte da pubblicitario, altre volte da rapper della politica. Prendiamo il suo celeberrimo «Io non sono matto, faccio il matto. Io sono il finto matto che dice le cose come stanno», che aprì la stagione del Picconatore. Pronunciatelo ad alta voce, ritmatelo: un tormentone musicalissimo, jovanottiano. Cossiga castigava - ridendo - i costumi della morente Prima Repubblica. Poi subito mutava registro: indossava una maschera shakespeariana, da nuovo Re Lear, e soffiava: «Adesso gli scherzi sono finiti». Era il '91, e l'ex "notaio" quirinalizio minacciava lo scioglimento delle Camere. Sapeva di star demolendo il Palazzo dall'interno, come se si fosse nascosto nella palla d'acciaio della "Prova d'orchestra" felliniana. Alla fine di quello stesso anno, lo ammise a Paolo Guzzanti: «Ho dato al sistema picconate tali che non possa essere restaurato ma debba essere cambiato». Nella cossigheide dell'epoca, quando le sue esternazioni diventavano lenzuolate per i quotidiani, appassionavano i suoi colpi di maglio contro i post-comunisti del Pds che ne chiedevano l'impeachment: e Occhetto veniva tratteggiato in uno schizzo verbale che valeva mille Forattini: «uno zombi con i baffi», che faceva «rivivere le cose più abbiette e più volgari del paleostalinismo». Mentre Violante, allora fresco acquisto della Quercia, era trasformato dal Capo dello Stato in un "piccolo Vishinki", versione mignon, risibile, del temutissimo giudice dei processi farsa in Urss. Certo, Cossiga rintuzzava gli attacchi a palle incatenate che da Botteghe Oscure venivano mossi contro il Colle per via di Gladio: del resto il Capo dello Stato aveva rivelato che, in occasione del voto del '48 lui stesso faceva parte «di una formazione di giovani democristiani armati dai carabinieri, per difendere le sedi dei partiti e noi stessi, perdute le elezioni, avessero tentato un colpo di Stato». Apriti cielo: ma alla fin fine Cossiga ci si divertiva, con quelli dell'ex Pci, un gatto mammone con i topi orfani di Berlinguer. Non ne vedeva uno, in grado di ereditare la statura morale e politica del suo cugino di sangue: e allora ecco - nel '98 - la satira bruciante e sul coordinatore dei Ds Folena, dipinto come «un mancato indossatore»: «Quando lo vedo penso sempre a quanto ha perduto la moda e quanto poco ha guadagnato la politica». Non che il senatore a vita fosse feroce solo con quelli a sinistra: nello stesso anno si esaltava in un doppio paragone storico: «Se Berlusconi è il nuovo De Gasperi, io sono il nuovo Carlo Magno». Diventava tragico solo quando alludeva a presunte verità sui misteri italiani: Ustica, Bologna, Via Fani. Parlava chiaro, eppure mandava messaggi cifrati. O tardivi anatemi. Come quando, nel 2001, disse: «Io ho concorso ad uccidere o a lasciar uccidere Moro quando scelsi di non trattare con le Br e lo accetto come mia responsabilità, a differenza di molte anime candide della Dc». Sembrava la didascalia a commento della foto dove lo si vedeva, nel '78. inginocchiato a Torrita Tiberina, davanti alla tomba del presidente democristiano.  

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