I Fini inquisitori di Scalfari

Bisogna riconoscere a Eugenio Scalfari, il fondatore de La Repubblica, quella di carta, di avere sempre diffidato di Gianfranco Fini, non essendogli mai apparse sufficienti le sue pur frequenti prese di distanza da Silvio Berlusconi dopo l’alleanza politica stretta con lui dall’ormai lontano 1994. È tuttavia singolare, e nel tempo stesso emblematica, la durezza con la quale, nell’omelia di Ferragosto ai suoi lettori, egli ha quasi schernito il presidente della Camera anche dopo la rottura così clamorosa e densa di rischi intervenuta con il presidente del Consiglio. Della quale, certo, Scalfari è compiaciuto - ci mancherebbe - ma non ancora convinto, e soprattutto soddisfatto. Egli reclama da Fini, e dai suoi uomini, ancora dell’altro. E che altro: di schierarsi nettamente con le opposizioni per creare una maggioranza parlamentare alternativa a quella uscita dalle urne due anni fa e di aumentare i procedimenti giudiziari a carico di Berlusconi presentando appropriate denuncie alla «Procura competente». Scalfari sa bene che in Italia non mancano magistrati, da lui naturalmente stimati, che considerano da tempo il Cavaliere non un comune cittadino, e neppure un comune presidente del Consiglio, visto che ne sono sfilati tanti a Palazzo Chigi fra prima e seconda Repubblica, ma una preda. Anzi, la Preda, con la maiuscola. L’occasione evidentemente è ghiotta, da non perdere, per alimentare contro l’odiato avversario quella lunghissima campagna elettorale, da uno a due anni, che si rovescerebbe sul Paese se una crisi si risolvesse non con l’immediato scioglimento delle Camere, come vorrebbero il buon senso e la decenza, ma con un governo di cosiddetta transizione, decantazione e via imbrogliando: un governo composto e appoggiato da tutti quelli che non si sentono ancora preparati alle elezioni anticipate. E le temono tanto da farsi sotto e spandere un lezzo insopportabile, che Scalfari vorrebbe coprire spruzzando come un deodorante l’articolo 67 della Costituzione. È quello che esonera i parlamentari da ogni «vincolo di mandato», ma stride contro il diritto riconosciuto da anni agli italiani di scegliere non solo il partito, come avveniva quando la Costituzione fu pensata ed approvata, ma anche la coalizione di governo, cioè la maggioranza parlamentare, e il presidente del Consiglio. Di che cosa Fini e i finiani dovrebbero denunciare Berlusconi alla Procura «competente» per saziare l’ansia di «legalità» che li accomuna, sino ad ora solo a parole, con uno Scalfari dichiaratamente «stufo», pover’uomo, della «ripetitiva rissosità e inconcludenza dei politici» italiani? Dovrebbero denunciarlo di ciò che vanno insinuando da giorni, e che non può restare solo un «potenziale deterrente» nella polemica con il Cavaliere. E cioè, tanto per cominciare, di avere usato o lasciato usare i soliti servizi segreti per cercare, trovare e diffondere notizie e sospetti contro Fini per quell’affaraccio della casa di Montecarlo. A proposito del quale, peraltro, anche Scalfari riconosce, come già il suo direttore Ezio Mauro, che il presidente della Camera non ha fatto tutta la dovuta chiarezza. Altri temi da denuncia alla Procura «competente» sarebbero i presunti rapporti d’affari, evidentemente non di Stato ma personali, con il premier russo Putin e il capo libico Gheddafi. Non ho ben capito se nel mazzo delle denuncie che Scalfari ha istigato i finiani a presentare contro Berlusconi per dimostrare «il coraggio e la forza della propria coscienza morale» debba essere inclusa, salvo prescrizione, anche la lontana vicenda dell’acquisto della villa ormai storica del Cavaliere, quella di Arcore. Essa è stata contestata al presidente del Consiglio, in particolare, da Italo Bocchino, presidente del gruppo finiano della Camera che, come quello del Senato, si chiama Fli. Si legge come si scrive, non flai, all’inglese, confondendolo con una compagnia aerea. I finiani più esagitati si sentono orgogliosamente falchi, ma sono soltanto calabroni, forse anche agli occhi di Scalfari.