La realtà è la crisi degli italiani
Si deve avere rispetto per il dibattito politico, non banalizzarlo, cercando di comprendere quali forze reali determinano e accompagnano gli scontri fra persone e gli incontri fra gruppi. La politica, però, deve avere rispetto della realtà, mentre la nostra, da settimane, parla di sé stessa come se il resto del mondo e il resto dei problemi non esistessero. Gli statunitensi avvertono il rischio di una ripresa troppo debole, lenta, proiettata in un tempo troppo lungo, eppure il loro prodotto interno lordo cresce tre volte più velocemente del nostro. Certo, le dimensioni e il peso internazionale sono diversi, ma questo vale anche per la difesa del debito, tenuto anche presente che noi non possiamo manovrare la leva del cambio, al contrario di loro. Oltre Atlantico la politica ne parla, da noi no. Da noi si parla d'intrallazzi e trame. Quando si fece il referendum a Pomigliano d'Arco avvertimmo che era assurdo rifiutare le nuove turnazioni stabilite dalla Fiat, ma era non meno assurdo pensare di scaricare su quegli operai una decisione relativa alla globalizzazione dei mercati, quindi alla globalizzazione della concorrenza fra lavoratori. Non dovevano essere lasciati da soli, il problema non era quello di vedersela con i colleghi polacchi, o serbi, ma di ridescrivere le relazioni industriali e l'organizzazione del lavoro in un Paese che, da quindici anni, perde competitività. Erano e sono compiti della politica, non una partita fra operai o fra operai e aziende. Quando la Fiat decise di licenziare tre operai a Melfi, subito dopo l'esito di quel referendum (che diede ragione all'accordo sui nuovi turni, ma in modo non travolgente), osservammo che quel gesto serviva a render chiaro che non esistevano margini di manovra, che non potevano mettersi nel conto conflittualità utili solo a mostrare i muscoli. Ora il giudice del lavoro dà torto alla Fiat e dispone il reintegro dei licenziati, accusando l'azienda di comportamento antisindacale. Ancora una volta: non è questione confinabile a quell'episodio, ma assume un rilievo generale, che va ben oltre la causa in corso (che continua, perché Fiat tiene il punto e ricorre in ulteriore grado di giudizio). Il tema è schiettamente politico e riguarda la capacità del sistema-Paese di reagire ad una crisi non momentanea o passeggera, covata a lungo dal calo di produttività. E' la nostra legislazione del lavoro ad avere attutito gli effetti della crisi, ma solo su alcune categorie di lavoratori. C'è chi ha avuto la cassa integrazione, anche in deroga alle norme, ma ci sono intere fasce d'italiani (dagli autonomi alle partite iva, spesso lavoratori dipendenti mascherati da professionisti) che non ha avuto niente e che paga duramente. E' quella stessa legislazione, però, a rallentare la ripresa, rendendola nettamente inferiore a quella che altri giudicano insufficiente. Non sfugga il dato sociale: le protezioni hanno funzionato solo per alcuni, ma il rallentamento lo pagano tutti, il che significa che c'è chi paga due volte, perché non protetto e perché non libero. Questa è materia politica, che non può essere sotterrata sotto tonnellate di polemiche su questioni giudiziarie o d'insulti personali. Lungi da me il sottovalutare questioni di primaria importanza, anche quelle attinenti alla competitività italiana, come la morte della giustizia o il protrarsi delle crisi istituzionali, ma guai a credere che il mondo si riduca e comprenda solo in tali questioni. Quando la politica diventa autoreferente s'avvicina il giorno della sua fine.