Quando picconava in nome degli italiani
Quando venne eletto alla Presidenza della Repubblica, nel 1985, con un vastissimo consenso, Francesco Cossiga aveva alle spalle una lunga carriera politica. Aveva ricoperto incarichi di primo piano. Era stato, fra l'altro, ministro degli Interni nel V governo Moro subentrando a Luigi Gui travolto dallo scandalo Lockheed e poi, ancora, sempre come responsabile dello stesso dicastero nel IV governo Andreotti aveva realizzato la riforma dei servizi di sicurezza e si era trovato a dover fronteggiare l'escalation dell'offensiva terroristica giunta poi al culmine con il rapimento e l'uccisione di Aldo Moro in seguito alla quale, con un gesto largamente apprezzato, aveva deciso di rassegnare le dimissioni. In seguito, dopo le elezioni del giugno 1979, aveva guidato due governi tripartiti con la Dc il PSDI e il PLI ed era stato chiamato nel 1983 alla Presidenza del Senato. Un curriculum importante, dunque, che, dopo la scadenza di Pertini e con Bettino Craxi alla guida del governo, lo aveva proiettato alla suprema carica dello Stato. Il suo predecessore, socialista dei tempi eroici, aveva instaurato una prassi fortemente legata alla sua personalità accentuando l'interventismo presidenziale nella lotta politica e costruendo, con iniziative spesso irrituali e anticonvenzionali, l'immagine di un capo dello Stato amato dai cittadini come un buon "nonno". Era una eredità assai difficile da raccogliere in un momento storico particolarmente delicato, segnato, in quella seconda metà degli anni ottanta, dall'incrinarsi del vecchio equilibrio politico e dall'accentuarsi del fenomeno della perdita di credibilità della classe politica mentre, sullo sfondo delle trattative più o meno sotterranee tra i partiti, cominciavano a far capolino i sintomi di quella che sarebbe stata Tangentopoli. Per un triennio circa, Cossiga, quasi in contrapposizione all'esuberanza di Pertini, aveva, per così dire, incarnato la discrezione. Aveva dato ragione alla profezia di Indro Montanelli, il quale, all'indomani della sua elezione al Quirinale, aveva scritto: «Non lo sentiremo parlare a ruota libera di tutti e con tutti» e aveva aggiunto: «Non tratterremo il fiato sulle sue battute». Pur consapevole della degenerazione in atto del sistema partitocratrico - il suo messaggio natalizio del 1987 lo fa ben capire - Cossiga nella prima parte del suo settennato sembrò muoversi con cautela cercando di recuperare la funzione notarile della sua carica. Tuttavia Cossiga non era uomo da retrovie né da attività di parata. Lo aveva dimostrato in tante occasioni. La sua intelligenza politica e la sua lucidità intellettuale erano ben note a tutti. E molti di coloro che ebbero occasione di frequentarlo, sia pure soltanto episodicamente, non possono non testimoniarlo e ricordarne la profondità della cultura umanistica (e non solo giuridica), gli interessi per la storia passata e recente nonché la sensibilità per la politica estera. Cossiga non era isolato nella torre d'avorio del Quirinale. Amava frequentare i politici e, non soltanto essi ma forse più, gli intellettuali, soprattutto gli storici, con i quali, in conversazioni ricche di arguzia, si apriva, faceva analisi intelligenti e disegnava scenari appassionanti. Quando gli avvenimenti del 1989 irruppero con forza sul grande scenario della politica internazionale travolgendo nel disastro l'illusione comunista e i regimi costruiti sul socialismo reale, fu, probabilmente, uno dei pochi a rendersi conto che i tempi erano mutati, che si era giunti a una svolta epocale destinata ad avere riflessi laceranti e irreversibili anche sull'intero sistema politico italiano. E di cambiare il passo alla sua presidenza di fronte alla incapacità della classe politica di rendersi conto appieno di quello che stava succedendo. Fu così che nacque il Cossiga "picconatore", il Cossiga del quale tutti gli italiani, sempre più lontani dalla politica e disgustati dalla degenerazione del sistema, attendevano, ogni sera davanti alla televisione come a un appuntamento divenuto fisso, quasi con ansia, curiosità, compiacimento le "esternazioni" del Presidente, irriverenti, certo, e intrise nel vetriolo della polemica, ma tutto sommato in linea con il buon senso e, quindi, con il sentire comune. Quelle "esternazioni" colpivano con ironia devastante uomini e forze politiche - celebre, fra queste, la definizione di Occhetto come lo "zombi con i baffi" per sottolineare l'ormai avvenuta fine del comunisti - e davano il senso della ineluttabilità del cambiamento. Il fatto, del resto, che esse provenissero da una fonte autorevole, da una carica al di sopra dei partiti e da un uomo, malgrado la provenienza democristiana, considerato al di fuori delle forze politiche organizzate conferiva loro autorevolezza e valore profetico. La reazione dei partiti, dalla stessa Democrazia Cristiana fino al Pci, furono furibonde e si giunse a ventilare l'ipotesi che il Presidente fosse preda di un "disordine mentale". Lo si accusò di "delegittimare" il sistema politico male usando la "legittimazione" fornitagli dalla sua carica. In questo quadro maturarono i tentativi comunisti di colpire la figura di Cossiga utilizzando, per esempio, il cosiddetto caso Gladio cioè la scoperta dell'esistenza di una struttura segreta facente parte della rete logica e operativa stay-behind creata nell'ambito della Nato nel quadro dell'attività di contenimento del comunismo in Europa e che Cossiga difese con energia. In realtà, queste reazioni non fecero altro che aggravare e accelerare la crisi del sistema. La verità è che Cossiga - al di là delle "esternazioni", peraltro mai fatte in contesti istituzionali, e delle polemiche effervescenti provocate - poneva in concreto il problema della necessità, nel nuovo quadro internazionale, di rinnovare un sistema politico che era stato, fino allora, condizionato dall'esistenza di due clausole, contraddittorie fra loro ma parimenti utilizzate, destinate a tenerlo bloccato: la cosiddetta conventio ad excludendum del Partito comunista dalla gestione diretta del potere e la sua surrettizia accettazione in un meccanismo di tipo consociativo nella gestione dello stesso. Indicativo della sua lucidità, ma anche della sua correttezza istituzionale, fu il messaggio inviato alle Camere in materia di riforme istituzionali nel quale egli, senza oltrepassare i limiti della propria funzione di garante della Carta costituzionale e senza quindi indicare possibili soluzioni concrete, pose sul tappeto i problemi esistenti con grande chiarezza. L'azione di Cossiga, durante il periodo della sua Presidenza, non fu "antipolitica" o qualunquistica, come da qualche parte si sostenne, ma fu essenzialmente politica e ragionata. In un certo senso, si potrebbe dire, Cossiga fu il notaio della crisi e della fine della Prima Repubblica. Un ruolo, questo, che è giusto e doveroso riconoscergli. Insieme a un altro riconoscimento. Quello alla sua intelligenza.