Pontone eseguì un ordine
Una parola. Una sola parola. Per la precisione, un verbo. Un verbo che rende quanto meno ambigua la ricostruzione resa da Gianfranco Fini sull'affaire Montecarlo; un verbo il cui senso potrebbe cambiare la versione della storia, e soprattutto le conseguenti responsabilità. Proviamo a focalizzare i passaggi in cui la versione di Fini scricchiola, esponendolo al rischio smentita. Al punto quattro, l'ex presidente di An spiega: «Nel 2008 il signor Giancarlo Tulliani mi disse che, in base alle sue relazioni e conoscenze del settore immobiliare a Montecarlo, una società era interessata ad acquistare l'appartamento, notoriamente abbandonato da anni». Dunque, Tulliani fa presente a Fini che c'è una società pronta a comprare. (Resta comunque il mistero di come faccia Giancarlo Tulliani a sapere dell'esistenza di un appartamento di An a Montecarlo, quando ne sono all'oscuro persino alcuni dirigenti del partito). Poco sotto, al punto cinque, Fini spiega: «Verificato dagli Uffici di An che l'offerta di acquisto era superiore al valore stimato (trecentomila euro a fronte di quattrocentocinquanta milioni di lire) e in ragione del fatto che il bene rappresentava unicamente un onere per An (spese di condominio ed altro), autorizzai il senatore Pontone alla vendita come accaduto altre volte in casi analoghi». Pontone è il tesoriere di via della Scrofa e agisce in virtù di una procura generale conferitagli sul finire del 2004 proprio dal presidente del partito Fini. È Pontone che vola a Montecarlo e firma l'atto di vendita della casa, nel luglio del 2008. Il verbo ambiguo è «autorizzare». Fini autorizza Pontone a vendere. L'ambiguità consiste nel fatto che – messa così - potrebbe sembrare che la trattativa sul prezzo della casa sia stata condotta da Pontone. Ma perché questo senatore napoletano ottantenne, depositario della cassa del partito da più di venti anni, decide di vendere l'immobile dell'eredità Colleoni a una società off-shore di un Paese dei Caraibi? E perché a quel prezzo? Non è un aspetto di secondo piano, in quanto determinerebbe la responsabilità della presunta truffa aggravata, reato per il quale procede la Procura di Roma. Inoltre, chiarirebbe anche una responsabilità politica, forse ancor più grave, perché farebbe luce sulle modalità di gestione dei beni privati del partito. Un'eventuale patente di «indegnità politica» getterebbe un'ombra sull'affidabilità in caso di gestione di beni pubblici. Secondo la ricostruzione che Il Tempo è in grado di fare, le cose andarono in maniera molto chiara. Pontone fu un mero esecutore. Del resto, lo è sempre stato. Uomo di fiducia di Fini, Pontone ha sempre risposto direttamente a lui, senza intermediari. Ha una fama di galantuomo: anche il concittadino presidente della Repubblica Giorgio Napolitano lo conosce da più di trent'anni. Un giorno dell'estate 2008, Pontone viene chiamato al telefono e si sente dire: «Franco, prendi l'aereo e va' da questo notaio, a Montecarlo. Vendi la casa e prendi i soldi». Punto. Lui non fa domande. È un esecutore. A Montecarlo Pontone va da solo, non si fa accompagnare dal senatore Antonino Caruso, assieme al quale invece era andato a prendere possesso della casa, una volta informato dell'eredità donata ad An dalla contessa Colleoni. Il tesoriere vola nel Principato e raggiunge l'indirizzo che gli era stato indicato. Non sa nulla di società off shore (società fittizie costituite in paradisi fiscali), non sa a chi deve vendere. Dal notaio Aureglia, stringe la mano ai due compratori che non ha mai incontrato prima in vita sua. Ha solo un ordine da eseguire: firmare. Non ha dubbi né deve averne, altrimenti non farebbe il tesoriere. Chi gli dà quell'ordine? Sicuramente Pontone ha sempre agito solo e soltanto su disposizione precisa di Fini. Le uniche trattative che ha condotto sono quelle con i dirigenti del partito che gli chiedevano soldi per questa o quella iniziativa politica, per questa o quella esigenza pratica. Richieste sempre gestite con estrema oculatezza e grande parsimonia. Comunque, di ogni azione e di ogni scelta Pontone ha sempre informato direttamente Fini. C'è soltanto un'altra persona che veniva messa al corrente di questi passaggi: Donato Lamorte, il capo della segreteria politica di An. Ma Lamorte, nella scala gerarchica, non occupava una posizione tale da poter ordinare a Pontone la vendita di un appartamento. E se anche l'avesse convocato nel suo ufficio e glielo avesse imposto, il tesoriere – uscito dalla stanza - avrebbe avvertito immediatamente Fini, per ricevere indicazioni sul da farsi. E che cosa fare adesso è quello che si sta certamente chiedendo questo galantuomo partenopeo, parsimonioso anche di parole, riservato. D'improvviso si trova pedinato dai giornalisti, il telefonino che gli squilla in continuazione. Finora è rimasto in silenzio. Ma se la Procura lo convocherà, risponderà alle domande e dirà tutto quello che sa. Mostrando le carte. A costo anche di essere accusato di non coprire Fini. Davanti alla legge, un avvocato della sua correttezza non conosce alternative.