Nel Pd c'è già un perdente: Bersani

«Il centrosinistra? Adunata di anime morte». Lo dice Vendola, uno dei tanti aspiranti leader. Anime morte che si risvegliano nella lotta interna. Tutti pronti, tutti generali, tutti apparentemente impazienti di sfidare Berlusconi. Ma non domani, meglio fra qualche mese nella speranza che sia qualcun altro a farlo cadere, a indebolirlo. Così si dicono ansiosi di sfidare il Cavaliere ma in realtà la sola sedia che fanno tremare è quella di Bersani. In sella da appena 10 mesi, eppure già incerto. «A me non piacciono gli infanticidi» ammonisce Penati (Pd) davanti al pericolo che si apra la caccia al leader. Sport caro al centrosinistra. Lo sa bene Prodi per due volte vincitore delle elezioni e per due volte vittima del fuoco amico. Così il Pd sembra ricordare nei modi, nella polemica interna la vecchia Dc. Correnti, sottocorrenti, faide. E il gioco ha conquistato anche chi ha radici comuniste, o altro. Ma poi non ci sono Moro, Fanfani, Forlani, Andreotti. Il risultato è un partito lacerato, che messe da parte le tavole di Veltroni, è alla ricerca di una identità, di una strategia, ma invece di attirare consensi perde pezzi. Rutelli, uno dei cofondatori, ha sbattuto la porta. E chi si riavvicina, vedi Vendola, non lo fa per aderire ma per conquistare. Per essere il leader. Non lo preoccupa se il grande vecchio del partito, Massimo D'Alema, ha già sentenziato che con lui si perde e non lo voterà. A Vendola va bene lo stesso. Anche in Puglia Baffino era contro di lui e ha vinto. Così prende quel no come un augurio. Ma l'esponente di sinistra non è il solo in campo. Da Torino arriva Chiamparino a mettere sul tavolo le carte. Vorrebbe ripartire da Veltroni, chiede un congresso, o in alternativa una conferenza programmatica, ma l'obiettivo è chiaro: sostituire l'attuale segretario attraverso le primarie. C'è il partito e c'è la coalizione, e quindi il candidato premier. E non sempre le due cariche si intrecciano. Così la Bonino non esclude di mettersi in corsa anche lei pur restando radicale. In fondo nel Lazio il Pd non ha trovato di meglio che affidarsi a lei. E anche se sconfitta è pronta a riprovare a livello nazionale. C'è anche Di Pietro che pretende di essere riconosciuto come l'antiberlusconi doc. Così ne esce fuori un quadro desolante per un partito o uno schieramento che vorrebbe candidarsi alla guida del Paese ma che ha paura del voto e preferisce la guerra nel proprio pollaio. Bersani e altri come lui vorrebbero una santa alleanza su una sola parola d'ordine: far fuori il premier. Poi si vedrà. Il Pd è di fronte al bivio più importante della sua storia. Non ha fiducia nella propria forza, sembra tramontato il sogno veltroniano di un bipartitismo all'italiana, da solo contro il Pdl, al massimo con un alleato purchè intenzionato a procedere verso una unificazione. Oggi il Pd considera già un successo sfiorare il 30 per cento dei consensi. Può trovare, pur a fatica, una alleanza con Vendola. E poi? Per vincere ha bisogno di altri alleati. Ma se si sposta al centro, si scopre a sinistra. E viceversa. Rutelli è stato chiaro: i democratici scelgano o con noi o con Di Pietro. E l'ex pm ha subito precisato: o con noi o con il traditore Rutelli. Pensare di metterli insieme è impresa ardua. Un altro Prodi, come sogna Fioroni, non si vede all'orizzonte. Anche perché sarebbe destinato a essere impallinato. E di kamikaze in giro ce ne sono pochi. Così Berlusconi sarà pure in difficoltà, ma una alternativa concreta non c'è. In questa situazione, rispunta perfino Follini con un'analisi catastrofica: «Il centro rischia la palude, il Pd il deserto». E nei giorni più difficili per la coalizione che ha vinto le elezioni, va in scena il vuoto assoluto dell'opposizione. Che non sa approfittare della situazione, dovrebbe chiedere, volere il voto, ma non vuole, non può. Si nasconde dietro lo scudo di ipotetici interessi generali del Paese tanto da accettare qualunque soluzione che consenta di prendere tempo perché sa che non ha la credibilità di porsi come alternativa. E Vendola lo lascia capire quando dice: «Noi rischiamo di fare una disputa astratta, scolastica, politicistica mentre il Paese va allo sfascio». Hanno voglia a dire i dirigenti democratici che non hanno paura delle urne. Ne hanno e come. Sanno bene che, nonostante tutto, le rivincerebbe Berlusconi. Mentre loro si dimenano nel dubbio se provare un leader carismatico capace di competere con Silvio, oppure affidarsi all'organizzazione partito. In realtà non fanno nulla. Fabbricano e distruggono candidati, indeboliscono solo l'attuale struttura, l'attuale capo che in pochi, pochissimi, vedono candidato premier. Lavori in corso? Sicuramente, ma con i tempi della Salerno-Reggio Calabria. Peccato per loro che gli italiani a differenza degli automobilisti che vanno a Sud un'alternativa ce l'hanno. «Abbiamo un candidato al giorno» grida preoccupato il pd Boccia. Merlo avverte che non c'è bisogno di aprire un concorso per il candidato e manda a quel paese l'astro ormai spento della Serracchiani. Così, tra grandi coalizioni, governi tecnici, governi a termine, alleanze con centristi ed ex An, governi della legalità, emerge il vuoto di un vera proposta alternativa. In qualunque altro Paese democratico l'opposizione non vedrebbe l'ora di accelerare il ricorso al voto. Ma da noi l'opposizione è una sgangherata armata Brancaleone, con un Pd che testimonia il fallimento dell'unione tra gli eredi della Dc e del Pci. E dei satelliti che lo tirano a destra e sinistra. Così l'aiutino arrivato da Fini potrebbe rivelarsi solo un boomerang, dietro gli aspiranti leader non c'è nulla. Ha proprio ragione Vendola: «A volte il centrosinistra appare come un'adunata di anime morte». E così il gioco, pur nella tempesta di questi giorni, resta in mano al Cavaliere.