Tutta la verità su Montecarlo
Senatore Antonino Caruso, quando si imbatte nell’eredità della contessa Colleoni? «Fine del 2000 inizio del 2001, quando sono iniziate le procedure per l’accettazione dell’eredità della signora». Lei cosa faceva? «Ero già senatore, stavo in commissione giustizia, che poi ho presieduto dal 2001 al 2006». E in quale veste se ne occupava? «Il senatore Franco Pontone, amministratore del partito, mi chiese di dargli dei consigli e assistenza, lo affiancai. Lo feci per spirito di servizio nei confronti del partito». Qual è la sua professione? «Avvocato civilista». L’uomo giusto al posto giusto. «Sono materie che ho sempre trattato. Sono di mia competenza». Andiamo avanti. Cosa fece con Pontone? Quali furono i vostri primi atti sull’eredità Colleoni? «Pontone mi mise in contatto con il notaio di fiducia di An, che seguiva tutte le questioni del partito su quel versante, dalla più modesta delle procure da rilasciare, alla compravendita degli immobili». Come si chiama il notaio? «Mario Enzo Romano. Presi contatto con lui, redassi l'accettazione dell'eredità con beneficio d'inventario così come prescritto dalla legge e avviammo le operazioni di inventario». Lei prese prima visione di una lista? «Come si fa in questi casi, si parte dalle volontà testamentarie e poi cercando di avere una lista della spesa, cioè delle cose di cui bisogna occuparsi». Ricorda a quanto ammontava il valore complessivo del lascito? «Mi pare che nella prima dichiarazione di successione - poi ce ne fu una integrativa - fosse di circa due miliardi di vecchie lire». Cosa c'era nella lista? «Due appartamenti a Roma. Quello dove abitava in viale Somalia e quello di via Paisiello ai Parioli, che all'epoca era affittato. Un bell'appartamento, ben arredato. La signora non era ricca, o meglio era senz'altro benestante, aveva tanti beni, appartamenti e quant'altro, ma viveva in maniera direi modesta, come si poteva desumere anche vedendo la sua casa. E credo che l'affitto dell'appartamento di via Paisiello fosse il suo reddito quotidiano». Oltre ai due appartamenti a Roma cos'altro c'era? «Terreni e un altro appartamento a Monterotondo. Terreni che a mia memoria non erano di grande qualità dal punto di vista reddituale, erano terreni agricoli, coltivati. Poi c'era una casa del mare a Ostia». E la casa a Montecarlo. «Sì, poi la casa a Montecarlo». C'era liquidità? «Sì, c'erano dei conti correnti. E investimenti in titoli di Stato. I classici risparmi di tutti gli italiani in quel momento». A questo punto, presa visione della lista il bravo avvocato e il bravo tesoriere che fanno? «Insieme al notaio è stato fatto l'inventario formale, la lista dei beni immobili e dei beni mobili. Quindi abbiamo trascorso un po' di giorni nella casa di viale Somalia in particolare, insieme al notaio, per inventariare anche i mobili e gli oggetti della contessa Colleoni. Che erano un po' lo spaccato della sua vita quotidiana. La signora era morta in ospedale, assistita da un'amica. La casa di viale Somalia era l'ultima in cui aveva abitato». Cos'ha pensato quando ha visto un lascito così importante da parte di un cittadino a un partito? Qual è stata la sua reazione? «Non mi sono stupito più di tanto. Perché, non in questa dimensione, ma c'erano stati altri piccoli lasciti da parte di altri militanti. An era l'erede del Movimento sociale italiano e l'opinione che io mi ero fatto frequentando Ignazio La Russa e Pinuccio Tatarella, amici personali prima di tutto, è che quel partito fosse una straordinaria comunità umana. Era assolutamente naturale che chi non avesse figli o eredi diretti, una famiglia, vedesse nel partito, nel nucleo politico che frequentava la sua vera famiglia. Lasciare le proprie sostanze, piccole o grandi che fossero, in questa chiave non mi sembrava una cosa innaturale. Certo, l'ultima erede del condottiero Bartolomeo Colleoni, l'entità, la varietà delle cose, hanno rappresentato un unicum, almeno per quanto riguarda An». Lei andò a visitare le case insieme a Pontone? «Quella di viale Somalia dove, come le dicevo, sono rimasto personalmente insieme al notaio a fare l'inventario dei beni. E poi ho visto quella di Montecarlo». Cosa c'era nella casa di viale Somalia? «É la storia politica della signora Colleoni. La contessa conservava una collezione nutritissima del Secolo d'Italia e de Il Tempo. Oltre ad altri giornali, c'erano anche numerose copie di Repubblica. Tutti chiodati, ben conservati e sottolineati. La signora forse guardava poca televisione, ma era una lettrice attenta e cercava di fare, per dirla in maniera pomposa, della elaborazione politica, almeno per come sembrava dagli articoli che ritagliava e dalle chiose che vi poneva accanto». Storia interessante. «Sì, fa riflettere soprattutto oggi che c'è una disaffezione verso la politica, come una persona che non aveva alcuna ambizione di carriera politica, ma era semplicemente appassionata all'idea di elaborare tesi sulla costruzione di vita della collettività, cioè la politica». Com'era arredata la casa di viale Somalia? «Modestamente. C'era qualche sintomo di piccole manie. Aveva delle scatolette ricolme di bottoni. Sì, la signora aveva un'originale collezione di bottoni». Argenteria, ceramiche preziose? «Non in maniera particolare. Non era la casa di Alì Babà. Era una casa direi ordinaria, modesta, di una persona che la viveva intensamente. Quella per la contessa non era una casa ma una fortezza». Fotografie? Effetti personali? «Di tutto di più. Fare queste operazioni, l'inventario dei beni dopo una morte, diventa un inevitabile viaggio nella vita di una persona. Di quella persona si vedono le cose di tutti i giorni, le banalità, le piccole manie, i ritagli di giornale». Poi lei e Pontone siete andati a Montecarlo. «Presi il contatto non ricordo se con l'ambasciata o il consolato italiano a Montecarlo, ma poco cambia. Volevo che mi indicassero un notaio di loro fiducia. Non volevo assolutamente avventurarmi in mezzo a leggi che non conoscevo. Mi sembrava non sufficiente il fatto di informarmi attraverso gli strumenti usuali, volevo un punto di riferimento autorevole e competente. Mi diedero l'indirizzo del notaio Aurelia, fissammo un appuntamento e insieme al senatore Pontone andammo a trovarlo. Ci spiegò che cosa bisognava fare, quali tasse pagare, tempi e modi, ci fece da chaperon, molto utile, con tutti i vari personaggi che si muovevano intorno alla casa a Montecarlo». Quali personaggi? «L'amministratore del condominio, persona palesemente molto introdotta nell'ambiente monegasco. C'era anche un architetto che mi pare svolgesse delle funzioni tra il mediatore immobiliare e l'arrangiatore di cose». L'azzeccagarbugli della situazione. «Eh, insomma...c'era anche un'altra figura, un consigliere giuridico, la persona che presta assistenza e consulenza in questi affari. Nessuno in Francia compra una casa senza questa figura». Arrivati a Montecarlo che fate? «Vediamo la casa. Tenuta più o meno con lo stesso concetto di viale Somalia. Una casa non grande, nemmeno microscopica come si è detto. Non sono un geometra ma tra i sessanta e settanta metri quadri ci sono». É in una bella zona? «Se uno pensa alla casa con l'affaccio sul golfo di Montecarlo...non è quella. È una casa in una palazzina d'epoca, credo si chiami palazzo Milton, un appartamento al piano rialzato, verso l'interno ha una piccola loggia molto graziosa. Una casa gradevole nel centro di Montecarlo. Cinque minuti a piedi dal casinò. Un tempo era un albergo, il Shakespeare Milton». Quanto poteva valere? «Non ricordo cosa mi disse il notaio. Finiti gli adempimenti dell'eredità, mi disinteressai della cosa. In epoca successiva, alla fine del 2001, io ero presidente della Commissione giustizia in Senato, mi telefonò una persona per chiedermi se ci interessava vendere l'appartamento. Ora non ricordo chi fosse e per chi lavorasse, mi disse che secondo lui poteva facilmente trattare la casa per sei milioni di franchi francesi». Al tasso di cambio del 2001 sono circa un milione di euro. Rivalutazione esclusa. Informò Pontone? «Informai Pontone. Gli chiesi cosa voleva fare, lui mi disse che non c'era un interesse a vendere la casa in quel momento». Pontone ha fama di essere un tesoriere dal braccino corto. Le sembra possibile che abbia venduto un immobile a Montecarlo per una cifretta? «Pontone è sempre stato molto economo, attento alle spese e questo è un indubbio merito. Quando decidemmo di andare dal notaio a Montecarlo, arrivammo in aereo da Roma a Nizza. Poi da Nizza a Montecarlo ci sono vari modi per arrivarci: elicottero, auto a noleggio, taxi e autobus». Pontone quale mezzo scelse? «Naturalmente l'autobus». Giunti in autobus a Montecarlo che fate? «Arrivammo proprio davanti alla casa e la vedemmo da fuori. Avevamo appuntamento con il notaio, ma scoppiò un temporale inaudito e trovammo riparo dentro una concessionaria d'automobili. A Montecarlo le autorimesse non vendono Autobianchi, questa vendeva Bentley, Rolls Royce, Jaguar, Ferrari». Il meglio su quattroruote. Continuiamo il racconto. «Sì, il meglio. Rimanemmo lì, al riparo dal temporale e Pontone era sempre più preoccupato per il tempo che passava. Temeva che il notaio potesse pensare che volevamo saltare l'appuntamento o che se ne andasse via». E a quel punto che succede? «Pontone è sempre più agitato. Alla fine decide di comprare un ombrello per ripararci dalla pioggia e poter arrivare al poco distante studio del notaio. Sparisce. Lo vedo confabulare con il garagista. Poi torna da me. È tutto rosso in viso: il tizio gli aveva venduto un ombrello griffato per una cifra che costava quanto un viaggio! Più volte con Pontone al tavolo del ristorante abbiamo scherzato su questo episodio». Pontone agiva grazie a una procura generale firmata dal presidente di An Gianfranco Fini. É credibile che Fini non fosse informato di tutto quel che faceva? «Fini era da sempre l'unico ad esser informato di tutto. Lo dico perché lo so, Pontone lo ha sempre detto e ripetuto: rispondo al presidente e tanto basta. Questo è nel costume di An. Anche i cosiddetti colonnelli, li ho sempre visti estranei al problema dell'amministrazione del partito, forse colpevolmente, ma estranei». Erano dunque due persone che si occupavano della gestione del partito: il tesoriere Pontone e il presidente Fini. «E l'onorevole Donato Lamorte. Io ho frequentato in maniera intensa due persone in An: Ignazio La Russa e Altero Matteoli. Dall'uno o dall'altro non ho mai avuto occasione di intuire che si stessero occupando di qualcosa vicina ai quattrini del partito. Se non, per entrambi, in termini di protesta per le poche risorse che venivano assegnate da Roma in occasione delle iniziative politiche del territorio». Qual è stata la sua reazione quando ha visto che la casa a Montecarlo era stata affittata al cognato di Fini? «Mi sono domandato perché non l'avesse presa in affitto un altro». Lei attende ancora una risposta. «Me la sono data da solo. Mi sembra una cosa che ha dell'incredibile. Nulla vieta al cognato del presidente Fini di innamorarsi di quella casa e affittarla. Nulla vieta che la possa acquistare. L'unica condizione è che la acquisti o affitti a un prezzo equo e alla luce del sole. E quel prezzo senz'altro non è congruo, è una bestemmia, non può essere quello di trecentomila euro, noi sappiamo che con quei soldi si comprano cento metri quadri alla periferia di Roma. Anche il fatto che la casa sia stata venduta, in sé non è una cosa scandalosa, semmai è scandaloso che sia stata venduta molti anni dopo». Perché Fini tace? Io trovo questo silenzio stupefacente. Lei? «Abbozzo un'ipotesi banale: non sa cosa dire. Forse si rende conto che questa è una scivolata non facilmente giustificabile. Perché in effetti se ci fossero state delle ragioni - e Fini sa esporre bene le sue ragioni, in maniera convincente - l'avrebbe fatto senz'altro. Forse davvero non ce ne sono». Che ne è degli altri beni della contessa Colleoni? «Desumo dall'esame dell'ultimo bilancio che gli appartamenti di viale Somalia e di Ostia siano stati venduti. Mentre quello a Monterotondo e quello di Roma ai Parioli sono ancora di proprietà di An». A quanto sono stati venduti? «Non ne ho proprio idea. Sono vendite risalenti al 2002-2003. Su tutte queste questioni a settembre bisognerà fare un file di sintesi per fare chiarezza e dare elementi utili al partito, che vanno doverosamente illuminati». Secondo lei la contessa Colleoni cosa penserebbe di questa vicenda? «Non so se le contesse di lungo lignaggio possono permettersi il lusso di incazzarsi, se così fosse, s'incazzerebbe».