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Fiat, agli operai di Cassino interessa la busta paga

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Il cambio turno allo stabilimento Fiat di Cassino

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«Io sono Giulietta e sono fatta della stessa materia di cui sono fatti i sogni». Lo stabilimento Fiat di Cassino, o meglio di Piedimonte San Germano, accoglie così chi si avvicina ai cancelli.  Un enorme cartello campeggia all'interno del sito e lancia il suo monito a chi lo guarda. Il problema è capire quali siano i sogni di chi ogni mattina entra nella fabbrica che, la Giulietta, la produce. La maggioranza non ha dubbi: servono soldi. Più di quelli messi in busta paga. Luglio è mese di salario pesante. Ci sono le ferie e i ragazzi che chiedono qualche soldino in più per andare in spiaggia con gli amici. Oggi (ieri ndr) è il giorno di paga ma chi esce ha musi lunghi e facce scure. La visione del cedolino ha spento l'euforia del mattino. Il premio di produzione era scontato che non ci fosse ma la quattordicesima, falcidiata dalla cassa integrazione, e ridotta a qualche centinaio di euro è stata un brutto colpo. Così nello sfogo di Rita, operaia di Pontecorvo, c'è la cartina di tornasole di un Paese che annusa con timore la possibile rinuncia al benessere acquisito: «Ho preso 1339 euro con un figlio compreso di quattordicesima mensilità, è una vergogna, sono stipendi miseri a confronto con il lavoro che facciamo qui dentro, per non parlare del premio di produttività che non è arrivato. Dove andremo a finire non si sa». La risposta forse è fuori, a pochi metri, nel cinese di vicino Shangai che vende oggetti fatti nel suo Paese a un decimo del costo italiano. Comprano? Non tanto. Ma io sto lo stesso qua. Non si sa mai. (libera traduzione da un italiano irriconoscibile ndr). A Torino intanto discutono di contratto, di diritti acquisiti, di investimenti che possono determinare la sopravvivenza. E gli operai di Cassino sentono il peso del conflitto. «Rischiamo di perdere in un giorno quanto conquistato» spiega Raffaele. Il suo linguaggio tradisce lo slang sindacalese: «La disdetta del contratto colpisce i giovani e non è promettente. Mi dispiace per loro. Io sono quasi arrivato». Ecco c'è il senso di impotenza in chi ha vissuto un'altra fabbrica negli anni '70 e '80 e oggi lascia a chi arriva una situazione di tensione e incertezza. Un clima che spinge Antonio alla citazione apocalittica: «Nel 1890 quando negli Usa i neri erano in schiavitù stavano meglio di noi». Forse è un po' troppo? Risposta: «Il sistema che si applica in azienda oggi è: o questo o a casa o la Cig (la Cassa Integrazione ndr). Il salario non arriva ai 1100 euro al mese e ci devo campare moglie e due figli. Se non è schiavitù poco ci manca». Detta così colpisce. Ma Roberto, operaio anche lui, precisa: «Non è vero. Qui la paga minima è 1200 euro poi ci sono gli assegni familiari». Diverse visioni del mondo. Certo, tanto non è. La consolazione: la vita in generale costa come in una città (caffè 80 centesimi e panino al bar tre euro) però alcune voci del paniere sono più accessibili. Un appartamento di 80 metri quadrati in affitto a Cassino costa 500 euro a Pontecorvo anche 250 euro. Qui Bossi non c'è, ma le gabbie salariali sono un fatto. E per ora il meglio che offre il presente. Poi c'è il futuro. «Lo vedo male» dice Gianluca. È cambiato qualcosa in questo lasso di tempo? «Il lavoro è aumentato e qualunque cosa non fai parte una comunicazione scritta» aggiunge. Un altro si infila veloce verso i tornelli. Come va dentro? Un mano accenna un «così così». Qualcun'altro la butta sull'ideologico: «Marchionne non si può alzare la mattina e fare le rivoluzioni, qui stiamo perdendo i diritti acquisiti con anni di lotte». Negli occhi di Gianluigi, giovane delegato Fiom, ci sono le folle che un giorno forse inciterà alla rivoluzione proletaria. In attesa, legge. «Compro tutti i giornali ogni giorno - (a quelli come lui guardano con ansia tutti gli editori italiani ndr)- e spero solo che la disputa con l'azienda non ci azzeri». Ce la state mettendo tutta però per alzare lo scontro? «La Fiom non ha mai detto no al dialogo. È il sindacato di tutti». Ideologico ma anche concreto: «Guadagno 1200 euro e ce la faccio perché vivo ancora con i miei». Il denaro. È sempre lui che torna prepotente. La sensazione è che la lotta sui diritti sia solo un pretesto per abbassare la tutela salariale. «Stanno rifacendo il look all'ingresso, aiuole, marciapedi e piante nuove di zecca. Lavori per 300 mila euro. Ma perché invece non li danno a noi» mormora un addetto ai magazzini. In soccorso c'è la manualistica aziendale. I primi tagli, in caso di crisi, colpiscono comunicazione e manutenzione dei giardini. Qui Fiat investe anche in questo. Il segnale è chiaro, Torino ci crede. Ce n'è anche un altro: la delegazione straniera in visita con i giubbetti gialli all'ingresso. «Sono americani, ma vengono anche da altri paesi» spiegano. L'azienda è viva ma i timori restano. Nel mirino c'è Marchionne che per molti è il nemico. Altri lo difendono: «Non è un fesso. Lo ha dimostrato in questi anni conquistando il mercato americano». Nemmeno i sindacati sono immuni da critiche: «Se non ti schieri con loro o con l'azienda sei una mosca bianca. Ti mobbizzano entrambi. Io mi sono licenziato» confida un ex operaio in attesa all'uscita. Ed è un pensiero che si ripete. «Chi sta nelle Rsu (i parlamentini sindacali nelle aziende) ha i posti migliori. Quelli più comodi» confessa a denti stretti un lavoratore con i capelli grigi. Ma c'è anche l'ottimismo. Duilio è giovane. Entra con le scarpe sportive di marca e la maglietta bianca con il logo Fiat: «Lo stipendio c'è. Le ferie le posso fare». Dove? Forse a Riccione. Nazionalista.

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