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La Destra dei rancori

Il sindaco di Roma Gianni Alemanno

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Osservare il processo di decomposizione e ricomposizione della destra italiana è un esercizio anzitutto di antropologia politica. Quella, per la precisione, che comincia con l'etologia di Konrad Lorenz e finisce con la nuova epica di Wu Ming 4. La sensazione generale è quella dell'sms inviato con foga da un parlamentare finiano all'uscita dell'Hotel Minerva: «O tutti eroi o tutti accoppati», restando indefinito il punto esatto della linea del Piave. Ci sarà l'estate, con le Camere chiuse e la politica aperta su strade nuove, o su possibili vicoli ciechi. Per questo, tra pacche sulle spalle e sguardi sconfortati, telefonate dell'ultimo minuto e discussioni rabbiose tra chi un tempo era un militante e ora è parlamentare delle due parti in litigio, l'aria cupa e tenera, avanguardista e scoglionata che si fa voce nei sodalizi messi a dura prova, nei negoziati intavolati con fretta e rabbia, nelle battute velenose di chi è incapace a fare il nemico, coinvolge anche chi semplicemente tenta di decifrarne gli ingredienti. Simbolo di questa deflagrazione, più di altri, è Giorgia Meloni, la ministra che Fini aveva pescato dal serbatoio delle forze giovanili e ora assiste all'ultimo spettacolo che avrebbe voluto vedere in vita sua, e se l'avvicinavi, già giorni fa, ti confessava che «me sento uno straccio», attorno agli stracci che volano nelle biografie di una comunità politica in liquidazione. Manifesto intimistico involontario dello stato d'animo generale è l'ammissione del piemontese Agostino Ghiglia: «Fini è stato il mio leader, ma Gasparri è il mio testimone di nozze...», il contrario del movimento di ricomposizione che unisce storie politiche distantissime, come quelle di Italo Bocchino e Fabio Granata, dal versante finiano, o Paola Frassinetti e Achille Totaro, dal versante berlusconiano. La famosa foto in tenuta da pallone dei “ragazzi di via Milano”, la squadra del Secolo d'Italia appesa in tanti uffici come simbolo di affermazione di un'intera generazione, usata e abusata dall'uso giornalistico, rischia di finire presto negli annali della memorialistica politica. Non serve andare a bussare le poche porte aperte di ciò che poco tempo fa, poco tempo che sembra un'epoca lontana di cortei e bandiere, erano le sezioni: basta accendere il pc e collegarsi sui blog o sui social network, luoghi dove le passioni vengono esplicitate senza troppi pudori, per ritrovare il peggiore corredo linguistico, gli apostrofi contro i «traditori» e i «venduti», i «dissidenti» e «gli assetati di potere», i «radical chic» e i «populisti», gli «irriconoscenti» verso Berlusconi che li ha sdoganati o verso Fini che gli ha procurato un posto al sole, come se tutto potesse essere degradato alla bassa retorica del derby o del palio, della stracittadina tra le due metà di un forte costrette a ergere in tutta fretta una palizzata in mezzo al cortile. Lealtà e fedeltà, ingratitudine e irriconoscenza, da parole, diventano dardi infuocati da scagliare nel campo avverso. E così può moltiplicarsi all'infinito la scena di surreale di Maurizio Gasparri che attacca in tv Giuliano Compagno, il curatore del libro «In alto a destra», che ribatte a bassa voce: «Sono solo uno scrittore...», o quella del deputato campano che si ferma all'edicola, leggiucchiando i giornali, e gli s'avvicina un vecchio amico di sezione esclamando «nonostante te, abbiamo cacciato Fini». Come se l'avesse vergato lui, il documento dell'Ufficio di presidenza del PdL. I giovani sono i più arrabbiati, gli intransigenti fanno trasfusione di bile con chi vive con maggiore contrasto il dolore di una possibilità che sfuma: le divisioni plastiche di un tempo, finiani contro rautiani, mondi paralleli che nell'Msi disegnavano universi di valore alternativi, lasciano il posto alla lotta più terrena tra «dissidenti» e «lealisti», Fabrizio Tatarella contro Giovanni Donzelli, Giammario Mariniello di qua e Vittorio Pesato di là, tutti convinti che Ragione e Torto abbiano scelto in quale parte militare. E l'eco del conflitto romano, come i cerchi concentrici di un terremoto, si propagherà velocemente in periferia. L'atmosfera che, come una nuvola bassa e satura d'umido saettante, si fa nebbiosamente strada in quello che per l'ultima volta e l'ultimo capitombolo della sua storia è stata la classe dirigente della destra italiana unitariamente intesa, nel caso del nutrito manipolo finiano rincorre metafore paracadutistiche: è l'euforia epica e incosciente che, nel bungee jumping, precede il punto di impatto, la massima tensione della corda elastica, il momento in cui il cuore si dilata perché, nel tuo foro di passione, hai paura che possa spezzarsi. Le corde solitamente sono attaccate ai ponti ma anche i ponti, in questa situazione di caos dove tutti cercano la nietzschiana stella danzante, sono saltati per aria perché, come esclama polemicamente il sottosegretario finiano Antonio Buonfiglio, «quelli che dovevano fare i pontieri alla fine hanno portato la dinamite». Eppure i tentativi ci sono stati. Si è speso a modo suo Gianni Alemanno, uno dei più consapevoli dell'effetto micidiale di una divaricazione che, tranne il caso improbabile di elezioni a tiro di schioppo, porta con sé, prima della forza dei numeri, una catastrofe antropologica. Si sono spesi Andrea Augello e Silvano Moffa, rautiani antichi e ora momentaneamente accasati in fronti paralleli. S'è speso persino un manipolo di profondi esegeti della prima Repubblica, memori del principio che quando si provoca una crisi bisogna saper immaginare e preparare subito la via di uscita. E così prima Giuliano Ferrara e poi, alla fine, persino Paolo Cirino Pomicino è intervenuto di suo per mettere in guardia il Cavaliere dalla tentazione di schiacciare il PdL col gomito della monarchia assoluta: la tesi di Geronimo è che Berlusconi avrebbe dovuto rinsaldare l'alleanza con Fini perché «il vero avversario è Giulio Tremonti». Ritorna la metafora dei ponti saltati, il fiume Kwai di una storia prima umana che politica, e risuona un'altra frase di Nietzsche, mille volte ripetuta nei documenti politici di svolta della destra italiana: «Abbiamo lasciato la terra e ci siamo imbarcati sulla nave! Abbiamo tagliato i ponti alle nostre spalle – e non è tutto: abbiamo tagliato la terra dietro di noi». Il problema, da oggi, sta tutto davanti.

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