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Lo schiaffo di Fini

Gianfranco Fini

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«Lo so, non sono solito leggere i discorsi. Stavolta però l'ho dovuto fare, bisognava calibrare le parole». Sospira Gianfranco Fini nella saletta dell'hotel Minerva, a Roma, a due passi dal Senato e dal Pantheon. Un luogo neutro visto che Fini convoca i giornalisti perché intende parlare più da cofondatore del Pdl che da presidente della Camera. Parla poco più di cinque minuti, legge una dichiarazione, poi si alza se ne va nel retro dove arrivano tutti i fedelissimi. Soliti applausi e complimenti.   L'unica affermazione politica è per Flavia Perina che gli si avvicina e lui fa: «Hai visto che ho aggiunto quel riferimento al fatto che i gruppi autonomi non voteranno provvedimenti che riterranno lesivi degli interessi nazionali?» Un solo giornalista viene ammesso, è Enrico Mentana, neodirettore de La7, con il quale il presidente della Camera commette una gaffe. Quando gli va incontro, Fini gli fa: «Non sapevo avessi anche una rubrica radiofonica su Rds». E il giornalista: «Veramente ce l'ho da dodici anni». Fini si rilassa, prova a scaricare la tensione dopo quei cinque minuti che segneranno la storia del centrodestra. Prima e durante quei cinque minuti nella sala del Minerva c'è sicuramente tensione. Che ognuno poi sdrammatizza a modo suo. Luca Barbareschi seduto in prima fila filma tutto con un telefonino ridendo come se fosse alla gita scolastica. Italo Bocchino entra in sala come al solito dispensando sorrisi, Fabio Granata corrucciato, Flavia Perina nascosta dagli occhialoni da sole. C'è tutto il mondo di Fini, lo staff al completo, i vecchi amici come Massimo Arlechino, colui che disegnò il simbolo di An e ideò la campagna Fini sindaco di Roma con Gianfranco descamisado con la giacca sulla spalla in stile Di Pietro (ieri in sala è apparsa anche la dipietrista Silvana Mura). Cosa dice Fini? Innanzitutto è teso. Parla scandendo le parole: «Ieri sera, in due ore, senza la possibilità di esprimere le mie ragioni, sono stato di fatto espulso dal partito che ho contribuito a fondare». Poi mette subito in chiaro quello che chiaro già è: «Ovviamente non darò le dimissioni perché il presidente della Camera deve garantire il Parlamento e non la maggioranza che lo ha eletto». Quindi apre il fuoco e spiega che quell'invito a lasciare lo scranno più alto di Montecitorio per lui palesa una «concezione non proprio liberale della democrazia». Di più, «dimostra una logica aziendale, modello amministratore delegato-consiglio d'amministrazione, che di certo non ha nulla a che vedere con le nostre istituzioni». I passi futuri sono chiari: «È un impegno che avverto - spiega - per onorare il patto con i nostri milioni di elettori onesti, grati alla magistratura e alle forze dell'ordine, che non capiscono perché nel nostro partito il garantismo significhi troppo spesso pretesa di impunità». Si rivolge ai suoi, quelli che hanno aderito o che potrebbero aderire: «Ringrazio i tantissimi cittadini che in queste ore mi hanno manifestato solidarietà e mi hanno invitato a continuare nel nome di principi come l'amor di patria, l'unità nazionale, la giustizia sociale, la legalità intesa nel senso più pieno del termine: cioè lotta al crimine come meritoriamente sta facendo il governo. Ma anche etica pubblica, senso dello Stato, rispetto delle regole». Spiega che il gruppo che fa a lui riferimento «è formato di uomini e donne liberi che sosterranno lealmente il governo ogni qualvolta saranno prese scelte nel solco del programma elettorale e lo contrasteranno se le scelte saranno ingiustamente lesive dell'interesse generale». In sala ci sono ormai tutti, anche quelli che erano in bilico. Fini ha fatto il pienone. Arrivano per esempio anche Catia Polidori e Pasquale Viespoli che pure aveva firmato un documento contro la costituzione di gruppi autonomi: «Non è più tempo di mediazioni. Fini è stato attaccato direttamente e di fatto è diventata una questione di solidarietà nei suoi confronti». Al via dunque i gruppi che si chiameranno Futuro e libertà per l'Italia, nome scelto da Barbareschi - ammazza che fantasia - ispirandosi al titolo del libro di Fini («Il futuro delle libertà») dello scorso autunno. Che cosa farà Fini ora? Per adesso si gode il successo. Gongola Bocchino: «Dicevate che eravamo 12, no?», dice passeggiando in un corridoio della Camera e si va a regalare un nuovo IPhone. Sorride Roberto Menia: «Ripubblico il mio discorso alla direzione nazionale di An due anni fa, è andata proprio come avevo detto». Scherza Adolfo Urso: «Ho vinto un po' di cene con quelli di Berlusconi, dicevano che non avevamo i numeri. E parlo dei big, eh». Il Pdl annuncia che si parte dal processo breve. Antonio Buonfiglio domanda: «È nel programma? Non mi pare. Se Berlusconi vuole sopravvivere oltre alla cene di Arcore ora dovrà chiedere di fare anche i pranzi a Montecitorio ogni martedì».

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