È guerra di successione
Eadesso? Domanda che accanto al punto interrogativo dovrebbe avere mille puntini di sospensione da riempire con un discorso politico perché raramente s’è visto un caso così esemplare di imperizia politica. I primi effetti del divorzio tra Berlusconi e Fini sono rovinosi per il Pdl: a dispetto di tutte le previsioni fatte nel Palazzo - alle quali non ho mai creduto e ho sempre opposto un’analisi fatta con strumenti disponibili a chiunque abbia un po’ di sale in zucca - i finiani avranno un gruppo parlamentare molto forte alla Camera e un gruppo piccolo ma agguerrito anche al Senato. È un risultato che i lealisti del Pdl non si aspettavano e questo fa emergere un difetto di visione e percezione della realtà parlamentare piuttosto serio. Berlusconi ha come sempre seguito il suo istinto, sono sicuro che in questo momento si sente più leggero e libero nell’animo, ma ho anche l’impressione che non abbia calcolato fino in fondo quel che stava accadendo nel Palazzo. Non so cosa abbiano raccontato al premier i suoi consiglieri, ma sono convinto che quando si arriva a un divorzio politico - a quel punto inevitabile - questo debba essere preparato con cura certosina, ragionato, valutato in tutti i suoi aspetti positivi e soprattutto negativi. Non mi pare che questo esercizio sia stato fatto in profondità e perciò la sfida politica lanciata da Fini è più sostanziosa di quanto i troppi yes men che circondano Berlusconi abbiano finora compreso. Hanno la percezione del rischio, ma non pensano all’orizzonte a lungo termine di quel che è accaduto. Chiedere a Fini di lasciare la presidenza della Camera è stato un errore, perché ha dato allo stesso Fini le ragioni per dire no, resto e continuerò a fare politica da qui. La maggioranza dice che non è più super partes, ma chiedergli di lasciare lo aiuta a restare e a legittimare la sua azione con l’aiuto delle opposizioni. I suoi trentatré fedelissimi alla Camera e la decina che avrà al Senato sono più che sufficienti per far ballare la rumba al governo ogni volta che lo riterrà utile alla sua guerra di secessione e soprattutto successione. Non è detto che il successore sia lui per forza, sono certo che non è più questo l'obiettivo primario di Fini. Il suo fine è un altro: prepararsi a un dopo Berlusconi che, in un modo o nell'altro, lo vedrà ancora tra i protagonisti, non nella posizione di candidato a Palazzo Chigi, neppure in quella di leader del partito di maggioranza relativa, ma nella veste di capo di una destra finora mai vista in Italia di cui non conosciamo i confini. Può darsi che nel Paese non esista, che il suo battello sia destinato a infrangersi negli scogli. Deve costruire da zero una proposta politica. Lavoro difficile, una vera e propria lunga marcia. Vedremo se ha polmoni per affrontarla. Per questo i suoi parlamentari appoggeranno il governo quel tanto che basta per non farlo cadere troppo in fretta, ma nel frattempo Fini come Penelope comincerà a tessere la sua tela dentro e fuori dal Parlamento. Chi dice che in ogni caso ormai ogni provvedimento della maggioranza doveva essere contrattato con i finiani, non ha compreso quale sia la reale portata della sfida lanciata ieri da Fini. Una cosa è il voto contrario durante la drammatica direzione di qualche mese fa, quella del "che fai? Mi cacci?", un'altra è consumare uno strappo politico vero e proprio, dar vita a gruppi parlamentari, lanciare una nuova sigla, organizzarsi nel territorio, darsi una struttura dirigente e fare politica autonoma tout court, senza più il pensiero di esser parte integrante del Pdl. Chiunque abbia fatto politica fin da quando aveva le braghette corte sa benissimo che questa è una fase in cui l'entusiasmo è il carburante che non manca mai. A Fini non interessa provocare (subito) la caduta del governo. Sa di venire dalla destra tutta legge e ordine, sa di aver commesso molti errori, sa di aver spiazzato una parte cospicua dei suoi elettori di una volta, sa di dover recuperare almeno con una parte di loro un rapporto antico. Ha bisogno di tempo. Ma sa anche di poter raccogliere consenso in quella parte di elettorato che non si riconosce nel berlusconismo e in quel ceto medio che finora ha votato il Cav ma comincia a diffidarne e a rumoreggiare perché non ha avuto quel che chiede dal 1994: una pressione fiscale dal volto umano. Il suo discorso politico negli ultimi mesi è cambiato notevolmente: non parla più di immigrazione, bioetica, cittadinanza. Ma di identità nazionale, meritocrazia e legalità. Ha cambiato proposta e questo gli ha consentito di recuperare una posizione che prima di questa mutazione era irriconoscibile e inconciliabile con la sua storia. Fini sa anche che Berlusconi ha la pistola delle elezioni anticipate con le polveri bagnate, perché la situazione economica non consente un'altra campagna elettorale permanente, vuoti di potere a Palazzo Chigi e soprattutto il voto non alletta Umberto Bossi, almeno non prima di aver portato a casa il federalismo fiscale. La Lega sarà il sismografo di questa crisi e a tempo debito anche il partito che più di tutti potrà dettarne i tempi. Sarebbe stato meglio per tutti trovare un'onorevole composizione del conflitto, ma è chiaro che ormai era troppo tardi. A questo punto Berlusconi dovrà escogitare qualcosa di nuovo perché la legislatura in queste condizioni ha il fiato corto e la soluzione di un governo di transizione, in caso di caduta, è davvero dietro l'angolo. Quei trentatrè voti alla Camera in caso di voto di fiducia si assottiglieranno, ma venti potrebbero essere sufficienti a staccare la spina e buonanotte. Berlusconi ha preferito rischiare e posso comprenderne le ragioni: non ci stava più a farsi logorare dal Granata di turno. La sua scelta sotto questo aspetto è stata lucida, ma il resto dello scenario appare più che mai nebuloso. Urge una risposta politica coraggiosa e fantasiosa. Allargare la maggioranza è più che mai ragione di vita o di morte. Assisteremo nei prossimi mesi a una guerra d'attrizione molto pesante: è chiaro che il Pdl aprirà una campagna di persuasione nei confronti di chi è passato con Fini, di chi ne sente la suggestione, di chi non sente il seggio sicuro e a questo punto «meglio Gianfranco che almeno è una speranza» per continuare ad avere un seggio in Parlamento. Evitare fughe, favorire ingressi. In gergo parlamentare si chiama «mercato delle vacche», per me è una semplice conseguenza della polverizzazione del centrodestra. Da questo momento è utile per tutti una ripassata delle pagine del Machiavelli: «Gli uomini dimenticano piuttosto la morte del padre, che la perdita del patrimonio».