Un partito in bilico
La rottura è ormai consumata nei fatti, manca solo l'atto formale, quel discorso che secondo indiscrezioni, il premier potrebbe pronunciare domani, in Parlamento, contro l'uso politico della giustizia e contro chi, in testa il presidente della Camera, sta cavalcando le inchieste per scardinare il Pdl. L'occasione potrebbe essere l'anticipazione delle riforma della giustizia penale che ilpremier potrebbe annunciare presto con un intervento in Aula, come ha annunciato ieri alla Conferenza degli ambasciatori a Roma. Nonostante siano in molti dentro il partito a consigliarli di non cedere alle provocazioni di Fini, di lasciare che il presidente della Camera compia un passo falso, il premier non ce la fa più. Si sente accerchiato, braccato. Ritiene che dietro l'azione dei magistrati ci sia la volontà di colpire al cuore il partito e lui stesso e che la regia di tutta l'operazione sia essenzialmente politica. Ieri poi è rimbalzata tra gli azzurri l'indiscrezione che ci sarebbe stata una riunione di Generazione Italia, la Fondazione che fa capo a Fini, durante la quale si sarebbe deciso di rompere con Berlusconi. Il sito della Fondazione inoltre ha dedicato ampio spazio alla conferenza stampa del coordinatore del Pdl Verdini per attaccarlo ancora una volta. Ma cosa significherebbe lo strappo? In ballo ci sono il simbolo, il patrimonio messo in comune dai due partiti al momento della creazione del Pdl e, non ultimo, i contributi statali. Sarebbe un vero e proprio rimescolamento delle carte con conseguenze gravi per entrambi. Alla Camera si fanno i conti di quanti potrebbero essere i parlamentari disposti a seguire Fini e se l'eventuale costituzione di un gruppo parlamentare separato dal Pdl sarebbe in grado di mettere sotto ricatto il premier. Umberto Bossi è stato chiaro: «Se non si incontrano, se non si trovano vuol dire che non vogliono trovarsi. Dunque, ognuno andrà per la sua strada». Ma il leader della Lega scommette che non si andrà al voto anticipato: «Spero che non si vada a elezioni. Anzi, ne sono sicuro. Le regioni sono senza soldi e se non facciamo il federalismo mi ammazzano». Parole che danno la misura di come ormai sia considerata scontata una resa dei conti tra Berlusconi e Fini ma senza precipitare nel ritorno alle urne. E per evitarle Bossi dice di essere pronto anche a «un patto con il diavolo». Chi è il diavolo? L'Udc di Casini? O magari esponenti di forze minori che compenserebbero la fuoriuscita de fininiani? Bossi non risponde ma le parole del leader della Lega, perno della maggioranza di centrodestra, innescano subito a Montecitorio gli scenari su governissimi, larghe intese o semplicemente su qualche nuovo ingresso nella maggioranza. Peraltro è stato lo stesso premier a lasciare intendere che la scissione potrebbe essere imminente. Nell'incontro con gli ambasciatori ha ammesso che «è possibile arrivare a una divaricazione all'interno del Pdl» ma ha anche precisato che «non ci saranno cambiamenti di maggioranza o di governo». Poi ha ribadito che «il governo è saldo» e si è detto «sereno perchè i numeri sono abbondanti». Il che significa che viene esclusa l'ipotesi di andare a elezioni anticipate. Sarà quindi una crisi che si consumerà all'interno della maggioranza. Una strada diversa sarebbe ostacolata dal Quirinale che è assolutamente contrario al ritorno alle urne in un momento di grave crisi economica. Sempre parlando agli ambasciatori ha detto di essere tentato di «ritirare la legge sulle intercettazioni perchè è stata massacrata da tutti gli interventi». Ha quindi ricordato di essere nel mirino della magistratura: «da 16 anni sono perseguitato dai giudici». Ma mentre il clima si surriscaldava e a poche ore da un vertice convocato da Berlusocni a Palazzo Grazioli con i coordinatori i capigruppo e alcuni ministri proprio per affrontare la questione dei finiani, è arrivato uno stop da Fini. Sembra un'apertura al dialogo o ancora una strategia per vestire i panni della responsabilità, di colui che di fronte all'ipotesi di una crisi ha come priorità il bene del Paese.