Fini: chi è indagato si dimetta
Verdini: richiesta impropria
Gianfranco Fini rompe gli indugi. Il presidente della Camera, in collegamento telefonico con la prima convention campana di Generazione Italia, ne ha una una per tutti. Il primo della lista, anche se non viene chiamato in causa direttamente, è Denis Verdini. Riferendosi ai «giudizi su alcuni comportamenti emersi in questi mesi» il cofondatore del Pdl spiega che devono esserci «due stelle polari». Intanto «il garantismo», e quindi la presunzione di innocenza fino alla sentenza definitiva, «ma al tempo stesso - sottolinea - mi chiedo se è opportuno che chi è indagato continui ad avere incarichi politici». Perché, ragiona Fini, «legalità significa rispetto delle regole da parte di coloro che hanno maggiori responsabilità. Significa senso del dovere, cultura civica, etica di comportamenti per chi ha delle responsabilità: credo sia essenziale se vogliamo insegnare ai più giovani ad avere comportamenti analoghi. E - continua il presidente della Camera - significa rispetto della magistratura, senza prestare il fianco a polemiche che rischiano di dare del Pdl un'immagine distorta». L'affondo prosegue. È cauto, ma sempre più specifico: «Occorre discutere tra di noi su come selezionare la classe dirigente. Non voglio gettare sale su ferite recenti, ma quello che è accaduto in Campania deve far riflettere. Occorre candidare coloro che hanno la qualità per onorare bene la carica». La linea è disturbata, Fini ironizza: «Sulla legalità c'è qualche interferenza», dice con la serenità di chi gioca in casa, ma subito aggiunge: «Lo dico scherzando». Eppure il cofondatore del Pdl sulla «questione morale» non sembra disposto a scherzare. Il riferimento questa volta è a Fabio Granata, un fedelissimo che va difeso. A chi gli chiede di sconfessarlo per le sue esternazioni su mafia e politica, a chi esige che lui dica qualcosa di chiaro e definitivo sul caso, prima che il deputato siciliano sia deferito ai probiviri del Pdl, Fini risponde con durezza: «Quando si pone la questione morale, non si può essere considerati dei provocatori, né si può reagire con anatemi, o minacciando espulsioni che non appartengono alla storia di un grande partito liberale di massa come lo abbiamo immaginato». Poi il presidente della Camera si concede una battuta che sembra una spiegazione a quanto accaduto in questi giorni al travagliato decreto legge sulle intercettazioni: «Le leggi non possono essere fatte per compiacere gli elettori - spiega - né per tutelare i furbi o rappresentare un salvacondotto». È un altro paletto. Un altro punto di non ritorno. La maggioranza è avvertita. Dopotutto c'è ancora l'articolo 13 della legge Falcone sul tavolo. Quando sembra che le stoccate siano finite, c'è un altro «nemico» da punzecchiare, anche se - ed è l'ennesima volta - sempre di un alleato si tratta: «Il federalismo fiscale rischia di danneggiare il Sud se non ci sarà un lavoro istruttorio serio che lo veda protagonista», afferma. «È un pessimo segnale quanto accaduto nei giorni scorsi - dice parlando poi di Quote Latte - quando il Governo per compiacere mille allevatori leghisti che si trovano da anni in una situazione di illegalità, ha previsto un emendamento alla manovra sulle quote latte che porterà ad una sanzione da parte dell'Ue». Il passaggio in questione rientra in una più ampia disamina dei rapporti tra PdL e Lega: «Il rapporto con la Lega - sottolinea Fini - per il PdL è strategico e importante, ma è essenziale ricordare che il Popolo della libertà è un grande partito nazionale che raccoglie consensi anche al Meridione e abbiamo un dovere morale, oltre che politico, verso gli italiani del Sud». Il federalismo potrebbe essere, secondo il presidente della Camera, «l'ultima occasione per la classe dirigente meridionale». Come dire: lasciarlo nelle mani della Lega potrebbe essere rischioso. Le parole di Fini sono incendiarie. Se l'opposizione gongola, la maggioranza all'interno del Pdl non può prendere posizione. Tocca quindi, nell'irritato ed eloquente silenzio del premier, ai coordinatori reagire (e non certo a Verdini, direttamente chiamato in causa): Sandro Bondi punta il dito contro il presidente della Camera e lo accusa di essere venuto meno al proprio ruolo istituzionale, Ignazio La Russa lo esorta nuovamente a lasciare la presidenza di Montecitorio per fare il ministro. Non lo farà mai, ribattono in coro i finiani, «fino all'ultimo giorno della legislatura».