Lo spettro della scissione
Al punto in cui siamo, non ha più senso interrogarsi su Granata, Bocchino, i finiani, Verdini, i berlusconiani e Berlusconi. Il Pdl è arrivato comunque a un punto di non ritorno - o se volete a una svolta - della sua storia cominciata sotto la bandiera di Forza Italia nel 1994. Fini ieri ha tratto un dado e dovendo scegliere tra Granata e Verdini ha scelto il primo e non avevo dubbi che avrebbe fatto questa mossa. È il sigillo su una sfida politica tutta interna al Pdl, la testimonianza che non ci sono più principi unificanti nel partito. L’esito più probabile di questa battaglia sarà la scissione in due tronconi: da una parte i berlusconiani, dall’altra i finiani. A destra Silvio, a sinistra Gianfranco. Al centro, una miriade di soggetti politici che staranno alla finestra per capire che cosa succederà nei prossimi mesi. La maggioranza è sull’orlo non di una crisi di nervi, ma della dissoluzione. Tenerla in piedi sarà impresa durissima e il governo è in una chiara situazione di pericolo. La legislatura stessa rischia di andare a carte quarantotto e lo scenario delle elezioni anticipate è tutt’altro che remoto. Il Pdl è arrivato a questo punto con le proprie mani. L’opposizione in questa storia non ha giocato alcun ruolo degno di tal nome, ha avuto il biglietto gratis per assistere allo spettacolo e spesso si è addormentata mangiando il pop corn. Si arriva a uno stato di pre-crisi della maggioranza con un’alternativa parlamentare tutta da immaginare, con il partito di maggioranza del Paese da ricostruire e un Parlamento di pessima qualità. La rottura con Fini è un male forse addirittura necessario. Sedici anni dopo la discesa in campo del Cavaliere, può essere l’occasione per cercare di capire quali sono i problemi non risolti del partito e trovare una soluzione. Se la vasta corrente di pensiero che immagina la politica senza partiti voleva una prova della necessità di avere un partito robusto ben ordinato alle spalle di un leader, ora ha materiale incandescente su cui fare due o tre riflessioni e tre o quattro conti con il pallottoliere parlamentare alla mano. Quando Italo Bocchino dice «o è guerra o è pace» ha già fatto i conti. Finisce così l’illusione di far funzionare il Parlamento, il governo e le istituzioni locali senza un partito strutturato, regolato, con una selezione seria della classe dirigente. Anche il Paese con i partiti più semplici e leggeri del mondo - gli Stati Uniti - alla fine ha una presenza dei Democratici e Repubblicani degna di tal nome. In questi mesi ho speso fiumi d’inchiostro su questo tema, era chiarissimo che il patto fondativo del Pdl stava diventando in realtà un principio d’affondamento. Serviva e serve ancora un nuovo inizio. Il Pdl e la sua proiezione speculare, il Partito Democratico sono le due facce della stessa medaglia: una Repubblica che dal 1992 è piombata in un’eterna transizione e dalla quale non riesce più a uscire. Qui il tema della giustizia ha un posto centrale: il cortocircuito giudiziario da Mani Pulite a oggi non è mai stato riparato. Berlusconi ha sempre annunciato una riforma organica, ma non è mai riuscito a vararla, per limiti suoi e del centrodestra, demeriti dell’opposizione, resistenze della casta giudiziaria. Il risultato è stato che i partiti hanno sempre vissuto sotto l’ipoteca delle inchieste, i suoi dirigenti sono stati spesso «selezionati» dalla magistratura, il corretto equilibrio tra il potere politico e l’ordine giudiziario s’è sbilanciato al punto che la magistratura s’è fatta politica (Di Pietro e i suoi epigoni) e il giustizialismo nuova ideologia politica. Questo velenoso intruglio ha mandato all’aria i Ds prima e il Pd dopo. Pochi ricordano che la fusione tra Margherita e diessini avveniva all’ombra delle scalate bancarie, delle intercettazioni, della questione morale nella sinistra. Quella già difficile «fusione fredda» nacque sulla spinta di un establishment che cercava un’alternativa al berlusconismo dilagante e della magistratura che metteva sotto inchiesta il vecchio apparato cooperativistico-finanziario del Pci. Ma mentre il Pd è in crisi nera, con i consensi a picco e una classe dirigente rassegnata, il Pdl è paradossalmente nella sua fase di massima espansione e crescita. Le elezioni regionali pochi mesi fa hanno consegnato al centrodestra tutto il Nord e gran parte del Centro-Sud. Improvvisamente a questa crescita è seguita una malattia interiore gravissima. È come se il Pdl si fosse ipernutrito, ingigantito, ma l’esile scheletro non riuscisse più a sopportarne il peso. C’è un leader ancora forte nel Paese, riconosciuto come tale da un blocco sociale che decide le elezioni, in grado di affermarsi in una campagna elettorale, ma sotto di lui c’è un vuoto d’aria. Salvare il governo significa riempire in fretta questo vuoto, mettere in moto la fantasia, fare politica, pensare di allargare i confini della maggioranza, ipotizzare un rimpasto al governo e nelle commissioni parlamentari, mettere in piedi un nuovo assetto di comando nel Pdl. Senza questo programma minimo, il centrodestra si prepari al peggio. Sta arrivando.