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Silvio e Gianfranco sono piombati in questa parossistica guerra dei Roses e per uscirne dovranno entrambi pagare un prezzo.

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Perora non mi pare aria. Ciò che appare chiaro è che in caso di rottura, la sigla del Pdl se ne va o in soffitta o in un'aula di tribunale per stabilire chi può usarla. È il primo partito padronale in cui il padrone non ha l'insegna della ditta. Non male. Complimenti agli avvocati. C'è poi il partito degli espulsionisti che in queste ore cresce e invoca il cartellino rosso contro il leader di quella che alla Camera viene chiamata la "corrente Bombacci", cioè Fabio Granata. Raramente a un politico il nome calza perfettamente, visto quanto le spara grosse Granata contro i suoi compagni di partito berlusconiani, siamo al più classico dei nomen omen. L'azione politica del finiano è in puro stile dinamitardo (siamo in piena metafora): piazza una carica sotto il ponte dei malcapitati berluscones di turno e... crash! Viene giù tutto, o quasi. Ovviamente questa tattica di pura demolizione non porta niente di buono al Pdl, ma ho l'impressione che alla corrente finiana di questo non importi un fico secco. Sono in piena fase picconatoria e, d'altronde, finora la risposta giunta dall'altra parte è inadeguata. Prendiamo per esempio Maurizio Lupi, vicepresidente della Camera, un politico svelto e in gamba, una persona di sicuro valore. Ha chiesto un intervento dei probiviri del partito per cacciare Granata. In teoria, non fa una piega. Poi uno guarda lo scenario del Pdl e viene quasi da ridere. Il suo invocare le regole si scontra infatti con la durissima realtà di un partito balcanizzato. Se per Granata servono i probiviri, cosa bisogna chiedere per l'ex sottosegretario Nicola Cosentino, quello che - secondo le carte della magistratura - partecipava insieme ai faccendieri rincoglioniti della P3 alla costruzione di un dossier contro Stefano Caldoro, candidato da Berlusconi alla presidenza della Regione Campania? Domanda con risposta finora inevasa, visto che Cosentino s'è dimesso da sottosegretario ma resta inspiegabilmente coordinatore del Pdl in Campania. Stesso discorso si potrebbe fare per Denis Verdini, uno dei triumviri del partito. Il suo problema non è giudiziario - Verdini è un presunto innocente e mi auguro di cuore che dimostri la sua estraneità ai fatti - ma politico. Dalla lettura dei verbali purtroppo emerge un suo ruolo di fazione, non di garante di tutto il partito, di dirigente che rafforza il patto tra leader, dirigenti, iscritti, militanti ed elettori. Su questo piano, non c'è bisogno di una sentenza o di un magistrato. Si faccia politica, si metta in sicurezza il partito e il suo patrimonio di voti e credibilità. A meno che Berlusconi non abbia in mente un altro scenario, cioè quello di fare lui la scissione, mollare Fini e cercare la madre di tutte le battaglie, cioè le elezioni, si torna esattamente a quanto ho scritto qualche giorno fa: nel Pdl bisogna fare politica. Gianni Alemanno è uno di quelli che si è reso conto di quanto sta accadendo nel Pdl e non a caso ha evocato la nascita di una "squadra" per il dopo-Berlusconi. Questo però è il domani, mentre serve una risposta concreta per l'oggi. Se alla corrente finiana si lasciano simili carte da giocare - sul triplice tavolo verde della legalità, dell'identità nazionale e della meritocrazia - a conti fatti la corrente diventerà un correntone e Fini si rafforzerà fino al punto da poter costruire lui un partito nel partito. A quel punto, il problema del simbolo e del suo uso sarà solo un dettaglio perché del partito immaginato e fondato da Berlusconi e Fini non ci sarà più niente. Solo una sigla buona per farci un quadretto da appendere a casa.

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