A Roma si piange sul latte versato
Centrale del Latte di Roma. Un marchio che evoca qualcosa di familiare. Apri il frigo, hai ancora gli occhi annebbiati dal sonno, prendi in mano una confezione, è quella, da sempre, la mano va con il pilota automatico. Prendi la tazza, un cucchiaino di zucchero, se ti va un po’ di caffè, e glu glu glu... il latte bianchissimo scende disegnando un’onda. Niente è più casalingo, intimo, caldo, di quel bicchiere di latte che ha nutrito generazioni di uomini e donne. Il settore agroalimentare è il grande serbatoio della nostra identità, gli italiani hanno poche cose in cui si riconoscono come «nazione» e il cibo è uno dei simboli che tengono in piedi lo Stivale. Per questo la guerra in corso tra gli allevatori e la Centrale del Latte di Roma m’appare di enorme importanza. Per me è la plastica rappresentazione delle difficoltà del Paese nel conciliare le ragioni di tutti e andare avanti nell’interesse del capitale, del lavoro e della nazione. Vengo da una terra di fierissimi pastori e comprendo le preoccupazioni degli allevatori, degli amici di Coldiretti, di tutti coloro che nella terra e con la terra sono nati e cresciuti. Con molti di questi amici abbiamo discusso nel recente passato sul futuro dell'agricoltura italiana, sulle soluzioni per assicurare un futuro a un settore che rischia davvero di finire a carte quarantotto. La storia della Centrale del Latte a mio modestissimo avviso è esemplare: ci sono tutti gli ingredienti per capire quanto i processi della globalizzazione rischiano di travolgere l'identità e quanto, nello stesso tempo, i processi inversi della chiusura di orizzonte rischiano di innalzare un muro sulla realtà. Parmalat, azionista di maggioranza della Centrale del Latte, ricorda giustamente le dure leggi del mercato, il non trascurabile fatto di essere un gigante alimentare che combatte una battaglia globale e il suo amministratore Enrico Bondi mette sul piatto della bilancia, in silenzio e con la concretezza che gli è riconosciuta da tutti, gli enormi sacrifici fatti per tenere insieme un'azienda che Calisto Tanzi aveva condotto verso il buco nero di uno dei crac più incredibili della finanza. Non bisogna mai dimenticare da dove è ripartito questo rarissimo manager dal nome italiano e dalla fermezza teutonica. Chi scrive ha seguito lo scandalo Parmalat, ne ha scritto senza riserve e conosce tutti i retroscena del crac. Salvare quel gruppo è stato un miracolo. Era pieno di squali pronti a comprarlo. Mi capitò di assistere alla borsa merci di Kansas City a discussioni in cui si progettava di comprare l'impero agroalimentare di Collecchio con pochi soldi e un'altissima resa futura. Così non è stato, per fortuna. Abbiamo difeso un nostro marchio, la nostra identità. Siamo stati bravi. Oggi però assistiamo a una lotta fratricida che non fa bene a nessuno. Gli allevatori lamentano un prezzo del latte troppo basso, l'azienda ricorda a tutti le condizioni reali del mercato. Occorre un chiarimento e la presa d'atto che il settore agricolo ha bisogno di un altro approccio. Al netto di una politica agricola comunitaria che fa acqua da tutte le parti, dobbiamo chiederci perché un Paese come gli Stati Uniti, dove l'agricoltura rappresenta appena l'uno per cento del prodotto interno lordo, investa tanto in agricoltura. I sussidi del governo federale sono di proporzioni gigantesche, l'impatto degli aiuti sul mercato globale qualcosa di inimmaginabile. Gli Stati Uniti, nonostante quel misero uno per cento, sono il primo produttore mondiale di soia e mais, sostengono la loro agricoltura e dettano le condizioni di mercato. La produzione di latte italiano non soddisfa la domanda interna e di conseguenza dobbiamo importare latte. Il prezzo al litro è inferiore a quello dei produttori del nostro Paese. Che fare? L'Italia dovrebbe bussare alle porte dell'Europa e chiedere di rivedere tutta la politica agricola. Se il governo invece di perdersi nella tenzone tra leader dedicasse un po' di tempo - seriamente e battendo i pugni sul tavolo - a questo aspetto della faccenda, gliene sarebbero grate migliaia di famiglie che vivono di agricoltura. Lo Stato, inoltre, dovrebbe credere di più nel settore agricolo e puntare con decisione su uno dei pochi elementi identitari che ancora ci mettono in primo piano nel mondo. Non abbiamo grandi vie d'uscita e la storia della Centrale del Latte ci insegna che o si combatte tutti insieme o il mercato globale detterà le sue durissime leggi. Parmalat non può permettersi di perdere un euro, gli allevatori devono trovare una ragione economica per continuare a fare il proprio lavoro. Non sto cercando di condurre con questo ragionamento una inutile operazione di cerchiobottismo, non me ne importa un fico secco di dare ragione a tutti. Qui c'è in gioco qualcosa di più serio: l'identità della nazione, la terra, cioè la storia di noi tutti. Rispetto a vent'anni fa si sono persi tre allevamenti su quattro, il latte liquido rappresenta oltre il 40 per cento delle importazioni, la produzione si è ridotta e la concorrenza del Nord ed Est Europa è sempre più forte. Di fronte a uno scenario difficile - che dovrebbe unire e non dividere le aziende e i produttori - abbiamo assistito a un cambio di ministro dell'Agricoltura in corso d'opera (Galan al posto di Zaia), a una manovra che ha tagliato per decine di milioni di euro i fondi per l'agricoltura e al salvataggio degli allevatori che hanno fatto i furbi con le quote latte e scaricato le loro multe sul contribuente italiano. Noi tutto questo lo scriviamo, inutile poi piangere sul latte versato.