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Berlusconi è il più giovane

Silvio Berlusconi al premio Grande Milano

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Capisco la delusione dei quarantenni come il nostro direttore Mario Sechi e il buon Angelo Mellone, che si sono confrontati l'altro ieri su amarezze e preoccupazioni per l'interminabile transizione politica cominciata con il crollo giudiziario della cosiddetta Prima Repubblica. Capisco il desiderio di cambiamento che li accomuna, pur dividendoli nell'analisi di una situazione nella quale Sechi si chiede giustamente se quelli che aspirano a "prendere il timone di questa stagione e a inaugurarne un'altra" abbiano tutti "fame e sete" d'impegno e di novità, necessarie per motivarsi davvero. E per non limitarsi - osservo io da ultrasettantenne costretto per ragioni anagrafiche ad aver visto ancora più storture o naufragi di loro - a reclamare un generico e magari inconcludente cambio di generazione. Si fa presto a sentirsi una specie di Messia, come si atteggia a sinistra Nichi Vendola, dichiaratamente smanioso sia di candidarsi a Palazzo Chigi sia di trovare come suo concorrente dall'altra parte non il "vecchio" Silvio Berlusconi, con i suoi 74 anni da compiere fra poco più di due mesi, ma l'evidentemente giovane Gianfranco Fini. Che però con i suoi 58 anni compiuti il 3 gennaio scorso, in carriera politica da quasi quaranta, Amintore Fanfani avrebbe scherzosamente definito "un giovane anzianotto", come quelli del movimento giovanile della Dc che, da segretario ultrasessantenne del partito, lui decise di commissariare dopo aver dato una scorsa alle loro schede anagrafiche. Lo stesso Mellone, d'altronde, ammette che si può essere giovani d'età, persino ragazzi, e vivere da vecchi che trascorrono sempre la stessa giornata per coricarsi illudendosi che "domani sarà sicuramente meglio". Francamente, al netto di tutte le critiche che, per carità, egli merita a causa, per esempio, della sua ritrosia a liberarsi di tanta gente che gli sta attorno più per profittarne che per aiutarlo, il "vecchio" Berlusconi mi sembra molto più giovane dei presunti giovani che muoiono dalla voglia di fargli la festa, a sinistra, al centro e a destra. Non a caso, del resto, nessuno più di lui è obiettivamente riuscito a cambiare la politica nei sedici anni trascorsi dalla sua prima campagna elettorale. Di nessuno più di lui gli avversari, pur facendogli una guerra spietata, hanno cercato di imitare l'approccio con il pubblico, senza mai riuscire però ad uguagliarne i risultati, neppure quando è toccata loro la fortuna di batterlo, ma non quella di durare al governo più di diciotto mesi consecutivi. La delusione per questa interminabile transizione italiana, per le ormai troppe riforme annunciate e non fatte, qualche volta neppure tentate, e l'invocazione di aria fresca da fare entrare nei polmoni rattrappiti della gente, di qualsiasi età e orientamento, non possono tuttavia prescindere da una paura. Che è quella di un'agenda politica dettata dalle Procure della Repubblica, poco importa a questo punto se per colpa più del protagonismo di certi magistrati, o dei discutibili comportamenti dei più o meno eccellenti indagati di turno, o dell'uso che fa delle indagini giudiziarie un'opposizione a corto di progetti e di voti, o qualcuno adesso anche nella maggioranza. È in questa confusione che il procuratore aggiunto di Caltanisetta Domenico Gozzo, conversando con i giornalisti a Palermo prima di presentarsi alla commissione parlamentare antimafia, ha potuto sentirsi in diritto di chiedere se la politica "potrà reggere il peso della verità" che lui e i suoi colleghi starebbero scoprendo sulle stragi mafiose del 1992 e del 1993. Una domanda così provocatoria, la cui eco non poteva non giungere immediatamente ai commissari, doveva bastare e avanzare per sbattere la porta in faccia a quel magistrato e rinunciare clamorosamente alla sua audizione. Peccato che il presidente dell'Antimafia Giuseppe Pisanu non ci abbia pensato. Il pur mite e tollerante Aldo Moro, del quale l'amico Beppe si considera un discepolo, ma che anche io ebbi la fortuna di conoscere, al suo posto lo avrebbe fatto.

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